#Berlinale2016 – Genius, di Michael Grandage

Soffocato dalla sua teatralità, chiuso nei suoi rassicuranti interni, saggio sulla tecnica di recitazione di Colin Firth e Jude Law. Ma di ‘genius’ non c’è proprio nulla. In concorso

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New York, 1927. La pioggia cade sul marciapiede. Vengono inquadrati i piedi delle persone. Tra questi ci sono quelli di Thomas Wolfe. Strano balletto. Istintivo e nervoso. Quasi i segni di una genialità e di una personalità schizzata. E’ lui che manda più di 1000 pagine di manoscritto a Maxwell Perkins, editor della prestigiosa casa editrice Scribner’s Sons. Lui, che aveva già scoperto Hemingway e Fitzgerald, decide di seguirlo e gli fa raggiungere il successo. Diventano anche molto amici. Quando Look Homeward, Angel raggiunge un considerevole successo, lo scrittore inizia a diventare paranoico.

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Basato sulla biografia Max Perkins: Editor of Genius di Scott Berg e adattato per lo schermo dallo sceneggiatore di Skyfall John Logan, il film si affida prevalentemente alle prove dei suoi protagonisti. Dal controllato Colin Firth nei panni di Perkins all’eccessivo Jude Law in quelli di Wolfe, Genius si alimenta quasi di spezzoni in cui viene esibita una tecnica di recitazione sempre di stampo teatrale. Sommerso nei colori seppia di una fotografia che è il segno di una visione del biopic tradizionalmente piatta, smaschera le sue intenzioni nello scontro a teatro tra Wolfe e la sua compagna Aline (interpretata da Nicole Kidman), dove uno scontro di coppia diventa quasi rappresentazione scenica. Il palcoscenico è già pronto e ci sono anche gli oggetti. Manca però il pubblico. La vita ha bisogno quindi di una sua adeguata rappresentazione. Del resto Michael Grandage viene da lì; ha una sua compagnia (la Michael Grandage Company appunto) e ha diretto dal 2002 al 2012 la Donmar Warehouse a Londra.

E il film da quell’impostazione non si sposta. Attento a ogni movimento sulla scena (nelle abitazioni, nell’ufficio di Perkins) ha una struttura tradizionale da cinema British fine anni ’80. Tom Stoppard forse è un riferimento o forse la linea di una tradizione di un cinema studiato nelle voci fuori-campo, nelle letture-esibizioni quasi da performance, nell’uso di una musica che equivale quasi a un coro tra trombe e tamburi.

Come ogni biopic che più piatto non si può, non possono mancare ovviamente i riferimenti a Scott Fitzgerald (interpretato da Guy Pearce) con la malattia della moglie Zelda o a Ernest Hemingway sulla barca in una foto con un pesce enorme. Grandage gioca sul suo terreno ma il suo cinema manca di ogni guizzo. Non esce dal suo labirinto, come se avesse paura di perdersi. E quando c’è un secondo di smarrimento, c’è l’unica inquadratura viva del film, con Perkins e Wolfe dall’alto di un tetto mentre guardano New York. Ma è solo un attimo, un brevissimo secondo di un film che di ‘genius’ non ha proprio nulla, che si (auto)compiace nei giochetti di riflessi tra specchi e vetri e che poi torna subito polveroso e vecchio da dove era partito, con i volumi dei libri di Fitzgerald, Hemingway e Wolfe. Che, come in un romanzo, gli interessa soltanto finire la storia.

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