#Berlinale2016 – L’avenir, di Mia Hansen-Løve

Mia Hansen-Løve sente sempre il bisogno di filtrare, sia nella scrittura che nella regia, di allontanarsi per osservare l’autobiografico attraverso la lente di altri riferimenti… In concorso

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Nathalie “è stata” comunista, poi si accontentata di essere un’intellettuale impegnata, una professoressa appassionata, moglie e madre. Quando resta da sola, cosa le rimane? La libertà? O la solitudine?

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Ecco, da un lato c’è il mondo delle idee, che cerca disperatamente di farsi realtà, pratica e azione, ma rimane fatalmente isolato, chiuso nell’eremo tra le montagne, a conferma di come l’anarchia non possa essere che solitaria. E, d’altro canto, c’è la vita vera, quella dei rapporti precari, delle crisi, delle perdite, della pelle che invecchia e ingrigisce, nonostante i desideri rimangano intatti. E allora si tratta di razionalizzarli e sublimarli, di trasferirli dalla concretezza bruciante dei sentimenti e delle pulsioni su un piano ideale, più distaccato. Che poi, magari, è solo l’eterno lavoro del tempo. È tra questi due poli che oscilla L’avenir, questa idea di futuro come tensione e continuo squilibrio, orizzonte incerto di un dibattito, che è innanzitutto, magari soltanto, intimo, privato, nonostante Fabien si affanni a riportarlo nella sfera del pubblico. Ma non c’è pubblico, non ci può essere se la vita privata si srotola come un gomitolo di lana e non riesce più a connettersi al resto.

 

l'avenir2Mia Hansen-Løve condensa in una brevissima scena, una discussione tra Fabien e Nathalie, la vera questione del film. Aprendo uno squarcio su una miriade di risvolti, la coerenza, la scelta, l’impegno, la solitudine, la distanza tra generazioni… E per il resto lascia andare le cose per il loro corso, senza che i turning point si tramutino mai in veri colpi di scena, senza che i conflitti e i drammi esplodano. Restano trattenuti tra le pieghe delle cose, più che altro hanno la forma di pensieri che, di tanto in tanto, si sciolgono in lacrime e si mostrano nelle corse impacciate e inquiete di Isabelle Huppert, che si porta gran parte del film appresso. Si depositano in una musica, una canzone, una citazione da Pascal o Rousseau. Come se fossero già cristallizzati in idee, anni o secoli fa poco conta, e poi riportati in vita ogni volta, al nuovo riemergere di un sentimento simile, di una passione consonante. È come se Mia Hansen-Løve sentisse sempre il bisogno di filtrare, sia nella scrittura che nella regia, di allontanarsi per osservare l’autobiografico attraverso la lente di altri riferimenti. E così i libri diventano i protagonisti di questa trama bourgeoise (e universale), sono l’oggetto del desiderio e della discordia, mentre le immagini sembrano accavallarsi a quelle di L’heure d’été e Après mai, e poi a Rohmer fino a Renoir. Non è colpa di nessuno, ma c’è sempre un precedente, un momento in cui l’originale si trasforma in tipo. E questo cinema elegantissimo e colto, rischia di rimanere leggero e impalpabile… se non fosse per quella sottile, annichilita malinconia che soffia tra le freddi pareti dell’intelletto.

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