#Berlinale2016 – Miles Ahead, di Don Cheadle

Il tributo al grande Davis sta tra la sincera ingenuità della devozione e l’attenta orchestrazione del brano, tra il preciso ritmo del montaggio e le melodie del sentimento. In Berlinale Special

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A Tribute to Miles Davis, il principe delle tenebre. Se l’appellativo non è solo immaginario, ma è un titolo conquistato sul campo, perché non pensare il principe al centro di una caotica avventura notturna, dalle acide venature hard boiled, tra sparatorie, scazzottate, inseguimenti, alcool, droga e devastazione? Del resto, per raccontare ogni storia, occorre attitude, come ammonisce Miles con la sua voce grave e lacerante. Occorre trovare quella chiave che stabilisca il timbro, il ritmo e l’armonia e che permetta di restituire un mondo. E occorre che quella chiave sia propria, personale, inconfondibile. When you’re creating your own shit, man, even the sky ain’t the limit. Ed è proprio questa la sfida che si propone Cheadle, mostrare la sua attitude, penetrare nell’universo complesso di una vita evitando le comode porte del biopic, dei canoni del genere. Mescolare la finzione, certo, ma soprattutto scompaginare i piani e le strutture, per dar forma a una libera eppur rigorosa composizione.

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Siamo alla fine degli anni ’70, probabilmente i più cupi della vita di Miles, che da tempo ha smesso di pubblicare dischi, esibirsi, persino di esercitarsi. Si è rinchiuso nel suo appartamento dell’Upper West Side. I produttori vogliono a tutti i costi qualcosa di nuovo. Ma nulla. È il gorgo, un buco nero: anni di dipendenze e abusi, di malanni fisici insopportabili, vissuti da Miles con la strafottente spavalderia dei disperati. Ma probabilmente anche gli anni germinali di nuovi percorsi nella sua musica. Ed ecco, infatti, che si vocifera di un suo ritorno. Si sa di alcune registrazioni, di nastri con prove, incisioni che nascondono chissà quale tesoro. Alla porta di Miles bussa, allora, un giornalista di Rolling Stone, David Brill, pronto a raccontare quest’imminente rinascita. Brill è a caccia di una storia, ma si ritrova invischiato in un avventura. Il racconto può, forse, prescindere dall’esperienza? A quale attitude si potrebbe farebbe appello, sennò? Davis conduce Brill nei meandri notturni di New York, in cerca di droga, prova a farlo esercitare al sacco e a difendersi dai pugni della vita. E poi lo coinvolge in una ricerca a perdifiato: il nastro registrato è stato rubato…

 

miles ahead2Su quest’ossatura da 48 ore – sì, è vero, Cheadle e Ewan McGregor sembrano sul serio due compagni da buddy movie – i compagni di scrittura (Steven Baigelman, Stephen J. Rivele e Christopher Wilkinson, oltre il regista) innestano tutta una serie di frammenti della vita e della musica di Miles Davis: la registrazione di Porgy and Bess, il famigerato arresto davanti al Birdland Club nel 1959, in cui Davis sperimenta sulla propria “pelle” le questioni di colore… Ma gran parte ruota intorno al rapporto con la moglie Frances, un tormento del passato che si affaccia più volte nel febbrile dolore del presente. Un fantasma vivo, che riappare quando meno te lo aspetti, in fuga da un caotico scontro ai piedi di un ring in cui un pugile nero, che potrebbe essere tranquillamente Jack Johnson, le sta “suonando” a un bianco. Il tempo si incurva nel gioco dei ricordi e dei rimpianti. E ogni singola memoria si condensa come un grappolo di note nella più complessa partitura musicale. È vero, non c’è tutto Miles Davis e non c’è una linea coerente che incroci la musica con la vita, perciò i puristi potrebbero storcere il naso. I brani si susseguono, ma son sempre una piccola parte. E non ci sono tutti i compagni di avventure (John Coltrane?). Ma ci sono dei proiettili, delle punte acuminate che entrano nelle anche, nella carne, fino a farla sanguinare. Cheadle è mimetico, eppur magicamente fuori controllo nei panni di Miles. È denso, brutale, ma rigoroso fuori dai suoi panni. Quel che gli interessa è il privato prima che il politico, quel lato nascosto e intimo che toglie fiato alla tromba, ma che è la radice necessaria di ogni  social musical. Il suo tributo sta tra la sincera ingenuità della devozione e l’attenta orchestrazione del brano, tra il preciso ritmo del montaggio e le derive melodiche del sentimento. Mescola le immagini dal colore sporco di una blaxploitation anni ’70 allo studio preciso di una scrittura fatta di andate e ritorni, incastri e ripetizioni. Si lascia andare alla derive di un finale live in cui si esibisce con i fenomeni e alle contaminazioni con un hip hop sui titoli di coda. Eppure resta fedele. Dà forma a un turbolento e malincolinco film davisiano, perseguendo con coerenza la sua originalità di sguardo, la sua attitude. E tutto scorre come un magico flusso senza fine. E senza morte.

 

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