#Berlinale2016 – Ta’ang, di Wang Bing
La forma del cinema sta nell’indugio, in quella durata necessaria a far riassorbire dall’immagine, come fosse una spugna, almeno una parte del reale inquadrato. In Forum
Ai confini tra la Cina e il Myanmar, c’è un popolo in fuga: quello Ta’ang, originario della regione birmana del Kokang, costretto a un’emigrazione forzata da una guerra civile inaspritasi nella scorsa primavera, ma endemica da anni. Uomini, donne, anziani, bambini cercano di portare via quel po’ che hanno, per lo più animali da pascolo, e provano ad organizzarsi alla meno peggio, ai piedi dei monti e lungo i campi. E vivono in costante, ansioso contatto con chi è rimasto dall’altra parte della frontiera. Wang Bing punta ancora una volta ai margini, verso quelle sacche di reale che sembrano uscite dalla storia, condannate a un colpevole oblio. Situazioni oscurate dalla narrazione ufficiale, che rimangono lì, senza origine e senza destino. E già la volontà di restituire un’immagine visibile a queste porzioni di reale, ha la forza di una scelta morale necessaria, che consente poche repliche. E che ovviamente si riflette nella stessa pratica filmica.
Come sempre accade in Wang Bing, il cinema sembra dissolversi, rinunciare al controllo della forma per divenire liquida osservazione. Del resto non c’è una traccia già data. È un lavoro di scoperta e incontro. E tutto è ridotto all’osso: due operatori, uno dei quali è lo stesso regista, un tecnico del suono, un montatore. L’equipaggiamento è limitato all’essenziale. Anche perché si viaggia per zona impervie, rischiose e non avrebbe alcun senso portarsi dietro troppa zavorra. E così la camera sta semplicemente nei pressi. Si affaccia e si ferma ai focolari improvvisati dai profughi, che parlano degli yuan guadagnati col raccolto della canna da zucchero e cercano di fare il punto della situazione, facendo la conta di chi è rimasto a casa e non ha avuto ancora il coraggio o la fortuna di scappare. Staziona sul ciglio di una strada sterrata, in compagnia di una famiglia che è in attesa di capire cosa fare, di dove trovar rifugio per la notte, mentre tutt’intorno si avverte l’eco delle esplosioni oltre il confine. È una camera che indugia, quasi passivamente, sui volti, sulle parole, su una situazione che non può essere raccontata altrimenti che prestando attenzione alla casualità di ciò che si incontra. E allora, è proprio in questo indugio che sta la forma del cinema, in quella durata necessaria a far riassorbire dall’immagine, come fosse una spugna, almeno una parte del reale inquadrato. Wang Bing non fa giochi di montaggio, non velocizza. Seleziona il materiale in grandi blocchi di più minuti, sequenze prive di un filo narrativo conseguenziale, che assomigliano a tanti mattoni che hanno un volume e una massa densa, simile a quella del mondo. Nel lavoro protratto nel tempo, converte la leggerezza dell’apparato “produttivo” in un’immagine che ha un peso specifico definito, concreto, terribilmente schiacciante. Un’immagine che individua lo scarto tra una modernità dichiarata, globale (i cellulari) e l’isolamento primitivo di un popolo allo sbando. Ci può essere anche un’inaspettata scintilla di bellezza, come una bambina che si staglia su uno sfondo di fuochi. O la speranza di una dignità umana che non può essere piegata, come nella vecchia che sorride e scende lungo la montagna per raggiungere un improbabile rifugio. Ma siamo comunque nella terra di nessuno.