#Berlinale2017 – Álex de la Iglesia ci aspetta al Bar

El Bar, la nuova fatica del regista spagnolo, presentato oggi fuori Concorso. Un film politico e in qualche modo medievale, dice il regista, sulla gabbia dell’angoscia della vita che ci assedia

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Il cineasta spagnolo presenta El Bar Fuori Concorso a Berlino, “un nuovo esempio del mio genere preferito, la commedia del terrore. Racconta perfettamente la mia maniera di vedere il mondo, dove ogni cosa e’ una gabbia terribile. La vita e’ essa stessa una prigione, siamo imprigionati dentro noi stessi, sembra un dramma ma e’ proprio l’umorismo a rappresentare una possibilita’ di liberazione”.
Pare una maniera grottesca di rendere l’esistenza, tipicamente spagnola: “si tratta di una tradizione che per noi affonda le radici quantomeno in Goya”, spiega il regista, “ma ovviamente anche nel periodo spagnolo di Marco Ferreri, o in Bunuel, di cui ho visto ogni film 40/50 volte. Pero’ per me e’ importante sottolineare il carattere internazionale di El Bar: siamo a Madrid ma potremmo essere in qualunque parte del mondo, oggi sembra che tutte le cose importanti avvengano solo a New York, ma poi i film che si fanno a Manhattan spesso sono troppo localizzati. Questa storia avviene dovunque, ogni persona sulla faccia della Terra e’ oggi senza via di fuga in una maniera probabilmente mai sperimentata prima nella storia dell’uomo, un livello intollerabile di ansia e paura”.

Insomma El Bar e’ un film apertamente politico, una sorta di rompicapo alla Saw che pero’ non ha la soluzione, “la risposta non appartiene alle immagini ma allo spettatore”, mentre indica al contempo chiaramente nell’assenza di secondi fini e nell’impossibilita’ di fingere o mentire dei pazzi una via di sopravvivenza ad una simulazione contemporanea di vita troppo stupidamente attenta a costruire impalcature e strategie.
“Sopravvivere, certo”, continua de la Iglesia, “la vedo sotto una luce piuttosto medievale: il nostro destino e’ illogico, assurdo, non c’e’ alcun motivo reale di sopravvivere in questo inferno tra la vita e la morte”.
Come sempre accade alla presenza del regista, la conversazione tocca ben presto l’aspetto cinefilo, “spesso noi cineasti amiamo citare riferimenti alti e colti, ma la verita’ e’ che io mi sento molto piu’ ispirato dai filmacci che dai capolavori, se devo parlare di cinema d’assedio preferisco dire La Cosa che El Dorado, o qualunque altro Carpenter come i due con Snake Plissken. Penso sempre a quando ho chiesto a David Lynch cosa provasse nei confronti dell’Elephant Man, e lui mi rispose di sentirsi dalla parte di Tom Norman, il macellaio schiavista”.

Formalmente, per El Bar de la Iglesia racconta di aver guardato molto ai film hollywoodiani degli anni 30 e 40, in cui il direttore artistico era considerato piu’ importante del regista stesso, come in Via col Vento: “l’uso del set e della luce contro i personaggi in quei film, pensiamo anche a Hitchcock e a un titolo di qualche anno dopo come Marnie, definisce il loro carattere, la loro figura. Sono elementi narrativi”.
Sara’ anche stavolta la donna l’unica a scamparla?
“E’ un fatto antropologico. Le donne devono sopravvivere. A differenza di noi uomini, posseggono il senso del presente, che e’ fondamentale per farcela”.

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