#Berlinale2017 – Beuys, di Andres Veiel
Il film non può trattenere Joseph Beuys, figura enorme dell’arte contemporanea, non può addomesticarlo. E perciò si apre per la stessa pressione eversiva del suo soggetto (o oggetto). In concorso
“Quando l’uomo decide di autodeterminarsi, il capitalismo è finito. E io insegno appunto l’autodeterminazione”.
Finalmente Joseph Beuys, figura enorme dell’arte contemporanea, che dalla fine degli anni ’50 fino alla morte nell’86, ha attraversato le mille pratiche dell’avanguardia, oltre tutte le etichette: arte povera, concettuale, happening, body art, art language. Straordinario, nel senso letterale, “provocatorio”, dirompente, ben al di là delle gabbie formali della accademie, del fluxus limitato delle correnti, della dittatura delle tecnologie e dei consumi e quindi al di là il regime delle opere chiuse, delle opere merci, dei prodotti replicabili in serie… “Non sono contro la scienza, ma sono contro la distinzione tra arte e scienza. Ho scritto una partitura in cui affermo che arte è uguale a uomo che è uguale a creatività che è uguale a scienza. Non ammetto che il concetto di arte sia una negazione del concetto di scienza, ma dico che lo contiene”… Un personaggio anche controverso, per chi vuole fare appello alla giovinezza trascorsa nella gioventù hitleriana (Beuys era nato nel 1921), con l’arruolamento nella Luftwaffe e l’impegno nella Seconda guerra mondiale. Ma è solo un momento di vita, completamente ribaltato nel successivo radicale ripensamento dell’ordine sociale fondato sul capitale, nella prospettiva di un suo superamento “oltre il comunismo”, attraverso la scoperta di un nuovo rapporto con la natura e l’idea di un’arte realmente “democratica”, capace di liberarsi dalle forme e di resuscitare le energie più vitali dell’uomo. “Significa che l’unico mezzo rivoluzionario è un concetto totale di arte che genererà un nuovo concetto di scienza. Ed è per questo che in tutte le mie azioni cerco di far prendere coscienza all’uomo delle sue possibilità creative, le uniche che gli possono dare la libertà…”.
Tutto a partire da quel fatidico incidente del ’44, l’aereo abbattuto in Crimea. Beuys rimane nella neve per ore, mezzo morto, semicongelato. A salvarlo sono i nomadi tartari, che ricoprono il suo corpo con uno strato di grasso animale e coperte di feltro e lo accompagnano verso la rinascita con le loro formule sciamaniche. Nel film di Veiel tutto questo è raccontato puntualmente, per lo più per voce dello stesso Beuys, il cui ricordo si perde nel delirio delle immagini. Ma è l’unica notazione prettamente biografica, a parte la fase depressiva vissuta agli inizi degli anni ’50. Per il resto la vita è l’arte, senza più alcuna distinzione possibile. L’attività febbrile e l’insegnamento all’Accademia a Düsseldorf, l’occupazione e la cacciata per le sue posizioni non conformi alle regole dell’istituzione, il coinvolgimento politico diretto, con l’impegno pionieristico per il Verdi e la candidatura al Parlamento tedesco, fino all’epurazione per le sue idee radicali e il rifiuto di ogni strategia.
Attraverso i materiali d’archivio, le foto, gli interventi televisivi, i frammenti di interviste, le riprese d’accompagnamento alle performance (The Pack, How to Explain Pictures to a Dead Hare, I Like America and America Likes Me) e alcune testimonianze raccolte tra chi conosciuto o accompagnato l’artista, Veiel prova solo a tratteggiarne la figura e a ritracciare il suo percorso attenendosi al dato. Senza alcun tipo d’intervento ulteriore, a commento o a reinterpretazione. Se l’archivio, l’immagine già data, è l’equivalente cinematografico del ready made di Duchamp, di sicuro il film di Veiel non è un’operazione dada di spiazzante riposizionamento. Anzi, nella sua inconsistenza formale, ha l’umiltà di mettersi al servizio e ha il merito di non frapporre filtri tra noi e Beuys, le sue parole, le sue azioni.
Avviene, dunque, qualcosa di singolare. Il testo mostra tutta la sua fragilità e lascia che l’energia del personaggio esondi dagli argini. Se non per intero, quanto meno a fiotti, a spruzzi. È un po’ come accade anche per Le jeune Karl Marx di Raoul Peck. Il film non può trattenere Beuys, inquadrarlo a pieno e addomesticarlo. E perciò si apre, si smantella per la stessa pressione eversiva del suo soggetto (o oggetto). Sembra così emergere, quasi per caso, un’intima coerenza tra il documentario di Veiel e le idee di Beuys, che non vede nell’oggetto, quadro o scultura, quindi nell’opera finita, commerciabile, il fine della sua ricerca. Semmai il punto è centrale, cioè sta in tutto quel percorso che dall’idea arriva all’oggetto. O meglio, può arrivarci o meno, poco importa. Dunque la pratica concreta, immancabilmente aperta, che tratta i materiali (quelli finora fuori dalla grazie dell’Arte, come i prodotti organici, il feltro, il grasso animale) o dialoga con il vivente (il coyote di I Like America, le querce di 7000 Oaks). In tutto ciò è, per forza di cose, fondamentale la presenza di Beuys, quella sua figura scavata e allucinata. Ma le querce di 7000 Oaks dovevano essere adottate e piantate dai “normali” cittadini che volevano aderire al progetto, sostenendolo economicamente e realizzandolo nel concreto. Il risultato doveva essere una foresta. O meglio, sarà una foresta. Per natura proiettata al futuro, a centinaia d’anni oltre. È allora ovvio come sia altrettanto necessaria la presenza del fruitore, la nostra presenza, che recepiamo e contribuiamo a quell’energia prodotta dal lavoro, dando il nostro apporto al flusso creativo. Proprio quello che dava vita ai ghirigori “informali” che Beuys disegnava sulle lavagne durante le sue lezioni. Altre opere a tutti gli effetti, punti d’arrivo di processi di elaborazione teorica e perfomance concrete, immediate. Del resto, le premesse dell’arte sono ovunque. E ognuno è un artista.