#Berlinale2017 – Call me by your name, di Luca Guadagnino

Guadagnino si conferma sguardo lucido sulla percezione del tempo in Italia, una ricostruzione storica di urgenza tutt’altro che archeologica, il sentimento del suono originario. In Panorama Special

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In uno dei momenti piu’ vertiginosi di tutto il cinema di Luca Guadagnino, l’americano Armie Hammer e una sconosciuta italiana ballano su Love my way all’ombra del porticato di una chiesa, di notte in una piazza cosi tipica di una citta’ “da qualche parte nel centro Italia”, come recita il cartello introduttivo. Le campane della chiesa che suonano la mezzanotte si intrecciano con la base ritmica della canzone degli Psychedelic Furs, in un unico tappeto sonoro, in un unico tempo: come a proseguire con ogni evidenza il discorso del precedente, straordinario A bigger splash, Guadagnino si conferma con Call me by your name uno degli sguardi e dei pensieri maggiormente lucidi sulla percezione del tempo in Italia. E non a caso e’ puntualmente la percezione del turista (il film e’ scritto prodotto insieme a James Ivory), del visitatore che deve inserirsi in una scansione del presente e del reale che sembra aggirarsi in ogni istante tra le rovine, la ruggine che corrode i ritrovamenti subacquei di pura bellezza, la frutta che marcisce, la “dopoStoria”.

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Verrebbe chiaramente da tirare in ballo teoremi pasoliniani, epifanie rosselliniane al cospetto della verita’ della testimonianza sopravvissuta, dispersioni antonioniane in un’isola oramai irraggiungibile dal sentire del popolo, ma – come i titoli di coda svelano inequivocabilmemente – e’ davvero il mistero sacro, l’idea di luogo deputato caratteristica di Dario Argento, che ritroviamo in Guadagnino, in quell’altro istante magnifico al cospetto del monumento ai caduti del Piave, tra la chiesa e i manifesti del PCI in piazza, location perfetta per la dichiarazione d’amore tra Oliver e il 17enne Elio, che indossa una t-shirt dei Talking Heads in questa bolla di presente fasciata da dolly circolare, gli anni ’80 che non sono una ricostruzione storica ma il segno pesante di un’urgenza tutt’altro che archeologica, in tv e a tavola si parla solo di Craxi, e i monologhi comici sono quelli di Beppe Grillo: le signore del paese hanno ancora appeso al muro un dipinto di Mussolini, la famiglia di Elio, e lo stesso personaggio di Armie Hammer, sono ebrei.
Ogni stravolgimento sensoriale allora, ogni impazzimento estivo d’amore, non puo’ che essere

Call Me by Your Name - Still 2 oramai irrevocabilmente filtrato, passato attraverso le pagine di questi libri parlanti, forse i veri protagonisti nascosti dell’opera, i gesti d’amore piu’ sinceri conservati tra le decine di tomi e di volumi che vengono scambiati, letti, aperti e buttati sul letto nel film, i pensieri dei filosofi, degli scrittori, dei poeti (ancora Antonia Pozzi), la linguistica del suono originario (quello del “giovane Bach”, o di Sufjan Stevens?), quella distrazione dall’orologio in attesa della mezzanotte incombente, che contribuisce a far deflagrare un’emozione come una bomba.

Quando accade, e’ una benedizione, ed e’ forse a questo che servono tutti i romanzi, le musicassette, le lettere, le chitarre e i pianoforti: “sono cosi invidioso di quello che c’e’ tra voi due”, confessa ad un certo punto il padre di Elio, professore che nasconde sotto una certa leggerezza di vivere la distanza ormai disperatamente incolmabile che ha messo tra lui e le diapositive che raccontano l’oggetto – morto, e da resuscitare – della sua passione.
Dare un nome alle cose, ai sentimenti, le melodie, le persone: per poter possedere tutto realmente, anche solo per un attimo, battezzare l’altro con il proprio stesso nome.

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