#Berlinale2017 – Django, di Etienne Comar
Nella correttezza della confezione, la vitalità di Reinhardt, di quelle note e di quelle dita “bruciate” si spengano nel richiamo all’ordine. Perfetta apertura da Berlinale, nella tradizione.

Siamo nel 1943, con la Francia occupata dai nazisti, la situazione si fa sempre più difficile per Django Reinhardt e il suo Quintette du Hot Club. Il grande chitarrista manouche è all’apice del successo, ma le sue origini gitane e i sincopati e travolgenti ritmi delle sue corde non incontrano del tutto i favori dei soldati del Reich, che guardano alle usanze e ai gusti francesi come a una degenerazione, un virus da estirpare. Almeno secondo la versione ufficiale, perché bastano poche note di Reinhardt a riscaldare gli animi, anche quelli ariani. Comunque, il punto della questione è che il musicista viene invitato per un tour in Germania – del resto, l’arte degenerata è sempre stata una grande ossessione di Hitler e Goebbels, con tanto di mostre annesse. L’offerta in denaro è alta e dire di no avrebbe un prezzo troppo salato. Ma del resto Reinhardt non ha alcun interesse a suonare per i “crucchi”, che tra l’altro vogliono dettare tempi e ritmi delle esecuzioni: non più del 5% di sincopato, niente blues, pochissimo swing, proibito accompagnare i pezzi, battendo i piedi… Ma, soprattutto, Reinhardt comincia ad aprire gli occhi sui rastellamenti e le deportazioni ai danni della sua gente. Perciò, decide di rifugiarsi in Svizzera con la famiglia. Ma prima, tra mille pericoli, cerca di salvare il salvabile.
Sta tutto nella storia, l’esordio alla regia di Etienne Comar. Del resto, i suoi trascorsi da produttore e sceneggiatore (Uomini di Dio, Il prezzo della gloria, Mon roi), non mentono. E, perciò, lo script cerca di arrivare ben oltre le immagini, connettendo i frammenti del biopic in un ben più fedele e articolato racconto di un periodo e di un clima. La vicenda individuale di Django diventa così l’esempio singolo di un dramma collettivo, che è ciò che davvero interessa al “buon cuore” di Coman. L’eroe detta il ritmo col piede, per perdersi ben presto nelle trame dell’affresco, nonostante tutti i tentativi di Reda Kateb di andare oltre la semplice figura tramandata e la pura “funzione” narrativa, per iniettare sangue al grande personaggio già codificato e storicizzato, e dare un senso, un’interpretazione ai suoi accordi (e disaccordi). E di questa linearizzazione, vettorializzazione sulle traiettorie della Storia, è vittima esemplare soprattutto Louise de Klerk, la protagonista delle notti parigine interpretata da Cécile de France, che diventa una specie di Mata Hari, una donna da spy story e da zona grigia, sempre in bilico tra collaborazionismo e resistenza.
Ecco, non c’è nulla di male in quest’urgenza della memoria, che sopravanza di gran lunga l’ipotesi di un film jazz manouches, di strutture e improvvisazioni musicali, ma anche di pratica infinita, di instancabile lavoro liberatorio. Ma il rischio è che nella correttezza della confezione, nella buona forma della scatola, la vitalità di Reinhardt, di quelle note e di quelle dita “bruciate”, si spenga nel richiamo all’ordine. Perfetta apertura da Berlinale, nella tradizione.