#Berlinale2017 – Return to Montauk, di Volker Schlöndorff

Dal romanzo di Max Frisch, un cinema bollito sempre più succube della parola, con dialoghi lunghissimi ed estenuanti. In concorso

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Forse il dramma sentimentale non è più nelle corde del cinema di Volker Schlöndorff. O forse raramente lo è stato. Return to Montauk appare infatti una variazione di Voyager -Passioni violente che il cineasta tedesco aveva realizzato nel 1991 e che vedeva protagonisti Sam Shepard e Julie Delpy. C’è anche in questo caso un viaggio che è mentale prima che fisico e che in questo nuovo lavoro va a ricercare il ricordo di un amore passato. Non è un caso forse che entrambi i film siano stati tratti da un romanzo dello stesso scrittore, Max Frisch. In quel caso era Homo Faber, in questo Montauk.

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Max Zorn (Stellan Skarsgård) è unol scrittore giunto a New York per promuovere il suo nuovo romanzo che parla di una grande storia d’amore che però è finita. Ad aspettarlo c’è la sua giovane moglie Clara (Susanne Wolff). L’uomo poi incontra Rebecca (Nina Hoss), la donna a cui si riferiva nel suo libro. Lei, originaria tedesca, è ora diventata un avvocato di successo. Quando lo rivede, Rebecca si comporta in modo freddo e scostante. I due poi decidono di passare insieme un weekend invernale a Montauk, un piccolo villaggio che si trova alla fine di Long Island. Cercano così di ritrovare l’intesa di quel passato vissuto insieme. Nel frattempo però sono successe molte cose.

return to montauk susanne wolff stellan skarsgårdIl cinema di Schlöndorff dimostra di essere ancora succube della parola. E appare totalmente bollito. Del resto, dell’invasività letteraria, non sembra importargliene nulla. I dialoghi possono essere rimaneggiati ma non ricreati. L’adattamento diventa così una sorta di riproduttore cinematografico quasi automatico. Bene, stando così le cose ogni libro può essere portato sullo schermo. E il cineasta lo ha dimostrato anche in passato con ù, facendo apparire come una cosa semplice quello che Visconti invece non era mai riuscito a fare. Già l’apertura è indicativa. Con la macchina da presa sul volto di Skarsgård che sembra guardare in macchina e che poi si scopre che sta leggendo degli estratti del suo libro. Forse un esempio di ambiguità tra esibizione e confessione? Inoltre non vengono mai trascurati i continui rimandi letterari: Nabokov, Twain, Kafka. Sono 105 minuti ma il film sembra lunghissimo. E i luoghi diverntano solo un anonimo fondale: New York soprattutto ma anche il mare di Long Island. E lì il cinema di Schlöndorff non sembra allontanarsi di molto da un addattamento da Nicholas Sparks. Anzi, lo sfogo lunghissimo di Nina Hoss sulla spiaggia, mostra come la drammatizzazione ha sempre la precedenza sulle reazioni emotive del personaggio. Questo può funzionare parzialmente nei drammi storici. E il discreto, precedente Diplomacy, sta lì a dimostrarlo. Ma in Return to Montauk diventa letale.

 

 

 

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