#Berlinale2017 – The Lost City of Z, di James Gray

Gray soffre di sindrome di Stendhal nei confronti del cinema, ha le traveggole al cospetto del luogo del classico come dimensione aperta, dentro cui precipitare ossessivamente. Berlinale Special

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“Non e’ uno di noi, ma non e’ nemmeno dei loro: che ne facciamo di lui?”, si chiede il capo indio al cospetto dell’esploratore Fawcett, forse il personaggio tra tutti quelli dipinti da James Gray nella sua manciata di film che piu’ abissalmente esplicita il problema centrale del desiderio di appartenenza alla base della poetica del cineasta – se si potesse essere un indiano, subito pronto, esordiva Kafka: se si potesse esserlo, diventare cittadino di Z pur proveniendo da A, allora che fine farebbero le tue radici, le tracce che ti sei lasciato dietro, ad aspettarti?
Vanishing Act. Appartenenza, per forza di cose, vuol dire sangue del proprio sangue, paternita’: si, esatto, un altro grande film di padri, figli e fratelli, di dedizione e di scelte d’amore.

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Gray mette l’avventura tra parentesi, andando incontro all’ambizione disumana di inquadrare l’infilmabile, mapparlo, disegnarne i contorni precisi e la strada, perche’ piu’ dell’ossessione per l’impresa straordinaria, la spedizione fino alla fine del mondo, quello che importa e’ poter rivisitare il desiderio che ti tiene sveglio di notte, tornare ancora e ancora (a Manderley) a quella visione originaria e purissima. Trasformare il cinema e il luogo del classico in una dimensione dentro cui precipitare ciclicamente come al cospetto di una parete dipinta e preda di un attacco di sindrome di Stendhal.
Ecco, James Gray soffre con ogni evidenza di sindrome di Stendhal nei confronti del cinema, e quando hai una malattia, perdere i sensi e la coscienza non diventa piu’ un istante straordinario, da raccontare con i toni epici e gonfi dell’intrattenimento di genere seppur virato d’autorialita’, ma le traveggole entrano a far parte della tua quotidianita’, elementi dell’ordine delle cose.
Il miracolo piu’ grande di The Lost City of Z, gia’ accennato nel precedente The Immigrant che

Lost+City+of+Z-Sienna_Millerracchiudeva tutta la storia di New York vista da sotto un ponticello anonimo di Central Park, e’ questa andatura stranissima, questo racconto sospeso di un’irrequietezza con cui fare i conti per tutta una vita: non un eroe titanico che compie un’impresa straordinaria, ma un padre di famiglia (“ho moglie e figli”, non fa che ripetere Fawcett alla sua squadra, davanti ai pericoli della giungla) che crede nell’esercizio ritornante della propria missione, un viaggio in Amazzonia e poi un altro, e poi un altro ancora, e in mezzo la guerra, la trincea, il fronte.
Sienna Miller, personaggio abbacinante di moglie e madre, non si sorprende piu’ di tanto quando suo figlio dichiara la decisione di seguire il padre per un’ultima spedizione alla ricerca della citta’ d’oro narrata dai conquistadores: capisce subito che si tratta di un vincolo di famiglia, sacro e inviolabile, impossibile da spezzare.

Non siamo destinati a morire, afferma Fawcett, ed e’ una possessione che finisce per investire tutte le persone che ama, come gli e’ stato predetto da una cartomante durante la guerra, in una delle sequenze-chiave, che svelano come per Gray il sogno, il miraggio siano totalmente interiori. La citta’ non puo’ essere visualizzata neanche dal cinema, sullo schermo non appare mai se non intravista alle spalle del protagonista e della fattucchiera, e poi nello specchio in cui si perde la donna amata, portale d’entrata per la versione leggendaria della Storia, quella che appartiene a suo marito e alla sua famiglia, nell’ennesimo finale di fantasmi, nuovamente da mozzare il fiato nella precisa tradizione dell’autore.
lost_city_PATTINSONLe armi e le potenzialita’ del cinema allora per Gray sopravvivono davvero come interruzione, digressione, lato oscuro della luna (matter of fact it’s all dark), isola non trovata ma bella piu’ di tutte, che aumenta familiarita’ e riconoscibilita’ proprio rimettendo in circolo canoni, immaginari, stili e riferimenti (d’accordo Coppola, ma l’apertura e’ innegabilmente ciminiana, e in ogni caso la cocciutaggine del progetto, totalmente impossibile da veicolare sul mercato, ancora una volta accomuna Gray a questi due autori-suicida di film che non sembrano volersi mai chiudere, assumere una forma definitiva: anche di The Lost City percepisci in ogni istante la possibilita’ di mille montaggi alternativi, director’s cut con scene diverse, tagliate aggiunte o allungate…). Con l’intento lucidissimo di riaffermare “siamo gia’ stati qui”, qualcuno ci e’ gia’ passato.
Amare il cinema di James Gray significa percio’ condividere con lui e con i suoi personaggi la luce incommensurabile e indescrivibile che ti colpisce ogni volta che ti rendi di nuovo conto che l’entrata per un giro alla ricerca della Citta’ di Z e’ sempre aperta, ancora li, davanti (e dentro) ai nostri occhi. Farsi divorare dal sogno, per essere liberati dalla condanna.

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