#Berlinale2017 – The Lost City of Z: Arcana
Si viaggia per realizzare il movimento, e non per arrivare in un punto Z che vale solo come termine utopico. La città non è perduta nella misura in cui si continua a cercarla, ravvivandone il mito
Il libro di David Grann, alla base di The Lost City of Z, ripercorre la storia vera di Percy Fawcett e dei suoi viaggi in Mato Grosso, alla ricerca dell’ultima grande città sepolta. La terza “fatale” spedizione, in compagnia del figlio Jack, è del 1925. Più o meno gli anni in cui Schoedsack e Cooper si spingevano ai confini del mondo, tra le popolazioni nomadi delle montagne iraniane o nei villaggi del Siam, per girare i loro documentari “drama” ad uso e consumo del pubblico “borghese” americano. Prima de Le quattro piume e di King Kong… Del viraggio definitivo del reale verso l’avventura e il fantastico. James Gray sembra stare proprio qui, nel punto di congiunzione. Tra l’adesione e la deriva. Ritrova certe dimensioni del cinema anni ’20, quello per cui il mondo era ancora vergine e sterminati erano i campi di conquista delle immagini. E le coniuga con l’ossessione di quel cinema “epico” degli anni ’70, come giustamente detto, da Herzog a Coppola a Cimino. Dove il limite si era spostato, non so bene se più lontano o più vicino. Del resto quell’incipit con la caccia al cervo, subito seguita dalla festa con il valzer, vale come due citazioni, che in pochi minuti portano da Il cacciatore a I cancelli del cielo. Prima che il film si perda poi nelle giungle apocalittiche e nei furori di Dio. The Lost City of Z è quindi un libero attraversamento della storia del cinema, dal “classico” alla “modernità”, condotto sul labile crinale che sta tra gli stili e i generi, secondo dinamiche e percorsi del tutto personali e linee non consequenziali. Perché per Gray, che mette finalmente a fuoco e supera tutta la questione che sembra affliggere il cinema americano di oggi, il classico non è un impossibile e rimpianto punto d’approdo, da inseguire nella forma o nella forza di creare immaginario. Non è un problema di replicabilità; semmai di tenuta economica. Tanto è vero che Gray, nel momento stesso in cui decide di riproporne le fattezze, si accolla inevitabilmente tutti i rischi e accetta l’ineluttabilità del fallimento. Ma sa benissimo che la perfezione del cinema di una volta è solo un’illusione creata a posteriori, mentre, in concreto, agivano, dentro e fuori, forze opposte, tensioni sotterranee che si componevano in equilibrio sempre precario. Il cinema già appartiene alle forme d’espressione del contemporaneo, ne ha già introiettato i problemi e le questioni. Magari con più consapevolezza nella dimensione del racconto e con più lentezza in quella della rappresentazione. Ma tant’è… Gray sa, inoltre, che il fallimento è iscritto nella storia del cinema sin dalle origini, come eventualità economica e come certezza ontologica rispetto al mondo e alla vita. Quel che cambia oggi, semmai, è la capacità produttiva di assumersene il rischio, di andare oltre le mode. E questa è una delle questioni centrali di The Lost City of Z, che esemplifica, nello scontro tra Fawcett e James Murray, due atteggiamenti opposti: l’ansia dell’avventura, del viaggio come istinto ancor prima che scoperta e contatto, e d’altro canto il turismo, cioè la versione commerciale dell’idea colonialista di adattare il mondo a un sistema domestico o addomesticato. Da che parte sia Gray, non serve ribadirlo. Neppure da che parte sia il presente.
Ecco, The Lost City of Z recupera quel gusto per l’esotismo tipico della cultura occidentale dell’età coloniale, fino ai primi decenni del ‘900. Quello sguardo su civiltà misteriose, lontane, il fascino per l’esplorazione, la scoperta geografica, la mappatura dei mondi e dei popoli remoti, con i loro riti e le loro usanze. E riporta a galla tutta una tradizione letteraria che sembrava negli ultimi anni seppellita, da Jack London a Jules Verne, da Kipling a Hemingway, fino alle memorie e ai diari dei grandi esploratori. Da un lato il positivismo della conoscenza, dall’altro la letteratura e il romanticismo della sfida. La tassonomia della scienza che cataloga ed etichetta e, quindi, normalizza le cose. E il mistero che aspetta al di là delle colonne d’Ercole. Due tensioni che stanno all’origine di tutto e che valgono ancora una volta a fare del film un viaggio nel tempo radicale, ben oltre la semplice storia del cinema.
Se c’è un’ossessione in Gray, gravita sempre intorno a questo conflitto tra due desideri o bisogni: l’appartenenza e l’erranza. Tra l’istituzionalizzazione delle forme e la fuga, il cambiamento, l’esilio. La famiglia, le radici, e poi, all’opposto, l’altrove, in cui la vita si apre al rischio e alla possibilità. Del resto la figura fondamentale del suo cinema è il fuoricampo. Ciò che sta fuori quadro, o è nascosto all’interno, non concesso alla nostra visione precaria, perché coperto oppure avvolto dalla densità di quel nero che ha una consistenza plastica senza eguali, uno spessore viscoso, un’oscura proprietà assorbente. The Lost City of Z porta al culmine questa tensione al fuoricampo, dell’immagine eccentrica, eclissando proprio la città perduta, l’oggetto e il motivo della ricerca.
Ma questo conflitto finora si era sempre inverato nei personaggi di Gray in termini tragici, come una scissione, una lacerazione profonda. Era un dubbio o una condanna del destino. Qui si parla ancora di destino, ma come una specie di impulso primario, una spinta originaria. I protagonisti, più che avere una psicologia, sembrano tutti essere incarnazioni di queste spinte e figure di un’idea. Quando Fawcett dice alla moglie che il viaggio non è roba da donne, non fa altro che riaffermare la posizione archetipica dei ruoli. Ulisse e Penelope. La donna compie l’altro lato del viaggio, cioè l’attesa. Mentre l’uomo va in mare. Senza alcuna motivazione, se non l’istinto. E difatti, una volta compiuto il passaggio all’età adulta, anche Jack Fawcett seguirà il padre…
Con The Lost City of Z, Gray esce dalla tragedia per tentare un’ultima volta la via dell’epica. Con una magnifica ostinazione fuori tempo. Perché il mondo non ammette più eroi, come diceva Aldrich. E proprio la dimensione epica è andata perduta, cancellata dall’economia dei saperi e delle forme. La possibilità di un racconto eroico, corale, in cui connettere l’individuale al cosmico, il particolare all’ideale… In questo il film è sommamente ciminiano: sogna di far convivere in un battito il piccolo e il grande, di riempire di dettagli il quadro, per proiettarsi poi al di fuori di esso. Dove forse “c’è l’unica vera arte”.
Se il viaggio è la struttura narrativa per eccellenza, ancestrale ancor prima che classica, James Gray la pone come traiettoria definitiva del suo cinema. Ma in senso più ideale che reale. È un fine più che un mezzo. Si viaggia per realizzare il movimento, espressione dello slancio vitale, e non per arrivare in un punto Z che vale solo come termine utopico di una tensione continua, inestinguibile. Perché la città non è perduta nella misura in cui si continua a cercarla, ravvivandone il mito. Ed è raggiungibile solo dopo aver attraversato gli infiniti percorsi del sogno o del desiderio, è una proiezione che sta oltre lo specchio, nel riflesso deformato e fantastico del reale. O meglio ancora è, letteralmente, qualcosa che si proietta, fuori quadro, fuori forma, fuori testo. Sembra ancora di ritrovare Beuys, in un’assurda coincidenza berlinese. Non l’opera, che è infinita, sfinita, ma il processo all’opera, la ricerca di una strada di libertà e autodeterminazione, l’energia creativa che va dalla terra al cielo per il tramite dell’uomo. E magari non è un caso che nel film di Gray ci siano maghi, sciamani, tutti quegli stregoni che conoscono i passaggi segreti per le altre dimensioni. Il cinema degli uomini, come l’arte degli uomini, serve a questo. A tracciare i passaggi, ad aprire i varchi nella foresta, portali che connettano finalmente l’interiore del desiderio alle forme della sua espressione, i mondi reali alle utopie sognate. Servono a dare un’altra possibilità agli uomini.