#Berlinale68 – Black 47, di Lance Daly

Lance Daly, fuori concorso, racconta della grande carestia avvenuta in Irlanda attraverso le vicende di un soldato tornato per riunirsi alla famiglia e che trova la sua patria brutalizzata

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Una Grande Carestia in quattro anni a partire del 1845 decimò la popolazione irlandese, uccidendone circa il 20%. La strage imputabile inizialmente ad avverse condizioni climatiche, in un territorio di per sè ostile all’agricoltura, venne aggravata dall’irresponsabilità della politica economica britannica, che in quelle terre vedeva soltanto un’inutile accozzaglia di bifolchi. Un quadro mortificante sul quale Lance Daly edifica il proprio personale piano di ribellione al potere inteso a delinearne i tratti che da sempre lo contraddistinguono: l’arroganza e la prepotenza.

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Il riscatto del singolo sfocia in una diserzione di massa per vendicare i soprusi, le lotte del protagonista diventano inevitabilmente le gesta di riscatto di un popolo oppresso, geloso della sua identità culturale a cui non rinunciare per niente al mondo e che la sente minacciata in una delle peculiarità più irrinunciabili, la lingua. Lingua intesa inversamente dall’essere uno strumento di comunicazione, utilizzata invece come arma di dominio se trasformata in fanatica sottomissione, megafono della legge dell’impero che sparge degli editti dimenticando di diffondere l’alfabeto di decifrazione. Ed in automatico nella pretesa di farsi verbo stimola gli anticorpi in chi nei canti e nelle parole vede riflessa l’esistenza.

Daly sparge una luce cinerea sui corpi malnutriti in netto contrasto con i visi dei soldati delle truppe inglesi pieni di protervia, rende l’abbattimento fisico e morale opposto ad una insensibilità rubiconda. Un primo seme di dissenso che avrà sviluppi secolari, una voce fiera anche nei momenti peggiori, una divisione resa possibile da chi persegue un disegno imperiale senza curarsi di altro.

Chiaramente dalla storia di un popolo in lotta per la sopravvivenza il regista trova lo spunto migliore e le inquadrature restano convincenti sul marcire della miseria con la scelta di atmosfere apocalittiche mentre, forse soltanto nella pedissequa osservazione di una ricostruzione d’epoca, tratta l’efferatezza degli scontri in maniera poco verosimile adottando uno schema da racconto dell’Ottocento.

Stesso atteggiamento che è possibile riscontrare nella soundtrack tutta giocata su toni folkloristici che è ormai diventato un clichè dell’epopea dell’eroe e che alla lunga diventa stucchevole, mette a repentaglio il barbaro incanto della favola, soffocando il buio della notte dietro note troppo rassicuranti. Un discorso questo che tirerebbe in ballo la validità di giocare su tematiche costruite su una tragedia volendone edulcorare le conseguenze, maneggiando il film farcendolo di sostanza romanzesca, avvicinandolo al medievale in un mondo che da lì a dieci anni sarebbe entrato nell’era moderna. Un aspetto reso soltanto nella polvere da sparo utilizzata su prototipi di quella che sarebbe diventata la baionetta, l’incipit di una catastrofe di ben altre dimensioni.

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