#Berlinale68 – Incontro con Babak Jalali per Land

L’incontro a Berlino con Babak Jalali, autore di Land, che approfondisce il concetto di confine che è fin dai tempi di Frontier Blues il suo preferito oggetto d’indagine. In Panorama

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Avendone attraversati così tanti non è strano che Babak Jalali abbia dei confini un’idea come spazio difficile da immaginare. Iraniano, trapiantato e cresciuto a Londra torna ai presupposti di base del primo lungometraggio Frontier Blues in Land, che all’Iran Settentrionale, posto lontano anni luce dalla capitale Teheran, sostituisce le riserve indiane d’America. Il rischio che correva in questo caso risiedeva nel fatto che non essendo nato in quei luoghi il lavoro ne uscisse delegittimato, e quindi dai dubbi potesse emergere un’autocensura. Un pericolo evitato spostando l’attenzione verso delle peculiarità più universali, ed declinando il format in maniera inedita.

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Abbiamo incontrato il regista a Berlino, dove il film è presentato nella sezione Panorama: “Il cinema americano di genere è tutto basato sui cowboy e gli indiani, difficile trovare altri esempi come quello di Land. Il legame qui, l’idea centrale è quello di comunità isolate, posti che sono dimenticati dalle istituzioni. Le riserve infatti si trovano in territori molto molto isolate dell’America. Questo mi ricordava le mie terre. Mio nonno, nato in Iran del Nord, senza mai essere interessato ad andare a Teheran. Diceva “Sono nato qui, morirò qui”. Adesso che sempre più gente abbandona questi posti resta soltanto la polvere, la terra, ma è importante ricordare la cultura dei posti, i sogni, i pensieri ed averne memoria.”

Per girare il film e rimediare alle lacune sugli indiani, Jalali si è recato due volte in America, restando per molti mesi, dopo aver letto un reportage del Guardian sui territori del Sud Dakota. Una volta lì le prime impressioni sono state di shock, poi, superata la sorpresa, ne ha scoperto le persone con i loro sogni ed aspirazioni, con il loro passato, ed i panorami fantastici, che restano fuori dalle rotte toccate solitamente dal turismo, Los Angeles, Miami, New York, San Francisco.

Territori ai margini dunque, un tema quello della frontiera che per il regista è stato sempre centrale, facendo riafforare le connessioni con la sua patria. “La mia città natia è sul confine con il Turkmenistan, in Iran, e quindi siamo cresciuti con la sensazione di essere lontani dalla capitale, di essere isolati, di pensare “ma cosa succede laggiù?”. In realtà siamo anche geograficamente vicini ad un altro paese che non al nostro e quindi questa idea della frontiera per me è sempre stata una cosa folle. Come fanno ad esistere? Cosa sono queste linee? Poi vivendo a Londra ho continuato a pensare a questioni di migrazione, di frontiere di linee. Oltre questa linea, sei di un altro paese.”

E sulle città di frontiera dice di considerarle posti folli attraversati come sono sono dalle merci di contrabbando del mercato nero oltre che dalle persone, il concetto di una cosa che si sposta da un posto all’altro, che ne fa dei territori dove per certi versi c’è qualcosa al di là dalla legge. Considerati perlopiù scomodi, visto che i produttori americani hanno poca voglia di finanziare progetti che ne raccontino le storie e preferiscono lasciarli al proprio destino.

Per costruire una struttura narrativa credibile Jalali e i suoi collaboratori hanno scelto di fare un casting aperto “cioè non solo professionisti o gente con esperienza. Potevano anche esserlo ma non era un requisito sufficiente. Abbiamo visto indigeni del Canada dell’America. Non dovevano soltanto saper recitare ma dare l’impressione di essere una famiglia tra di loro, servivano i volti giusti. In prevalenza comunque erano dei non professionisti. Per loro questa era una storia banale, tanti di loro l’hanno vissuta. L’alcolismo è uno stato normale, tutte le famiglie ne hanno uno all’interno, un cugino un fratello coinvolto. Nel cast sentivamo delle storie toccanti e molto realistiche.”

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