#Berlinale68 – Khook (Pig), di Mani Haghighi

Pig racconta la storia di Hasan, un regista iraniano finito nel bersaglio di un serial killer. Dietro la facciata scanzonata i germi della riflessione impegnata. In Concorso

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Pig dell’iraniano Mani Haghighi riempie un vuoto in un genere, quello della commedia, non certo troppo selezionato in questi contesti. Il regista iraniano confeziona un prodotto insolito portando all’interno della comedy e di quelle che sono le regole da seguire i toni del noir degradanti in alcuni momenti nell’horror. Hasan è un affermato regista che insieme ai suoi colleghi compratrioti diventa bersaglio di un killer che ne decapita i cadaveri, incidendo sulla testa la scritta Pig. Su questa linea principale s’innesta poi la trama personale del protagonista reso geloso dalla partecipazione della moglie ad un film, un progetto del quale lui non fa parte.

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I mille salti di tono narrativo tutti unificati nell’idea di sdrammatizzare restituiscono delle soluzioni che di certo non hanno il demerito di appiattirsi in una comoda scappatoia sbrigativa e nel suscitare il lato comico di ogni situazione sollevano delle domande anche molto profonde.

Il problema delle gelosia espone l’aspetto di una società matriarcale, diventando un viaggio tra le maglie di quelli che sono gli equilibri relazionali tra i sessi, evidenziandone le libertà più o meno larghe, rilevando in fondo come possa declinarsi al femminile il vettore del buon senso. E già l’insofferenza di Hasan verso la professione della moglie, seppur dettato da esigenza di copione, ne è una conferma nel gonfiato contesto macchiettistico. E allarga i motivi di discussione sugli orizzonti dell’emancipazione, dei traguardi tagliati o ancora da raggiungere, offrendo spiragli di novità soprattutto al di fuori dei paesi arabi nei quali certe evidenze sono sconosciute quando non sottaciute in una visione lapidaria d’insieme.

La figura del serial killer dà il piglio invece a quesiti di ampia portata su una realtà debordata dentro un universo virale, dominato dalla ricerca di una visibiltà artefatta dai follower, giudice di ultima istanza pilotato dagli umori di un forum che possono condannare o riabilitare con l’autorità di un momento. Gli estratti digitali di molteplice derivazione fungono da rete schematica di indagine, rappresentano prove ed indizi, servono da alibi, tutto al servizio di una trasmissione di senso parallelo, meccanico e disumano nel replicare la sua stessa struttura. 

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Nel ribaltamento dimensionale verso inediti territori dell’essere si gioca l’altra scommessa del film, sostenuto comunque da un campionario classico di battute che hanno il merito di suscitare la risata rinunciando totalmente al volgare, utilizzando invece uno strumento ricorrente come la decontestualizzazione dei personaggi per potenziarne la componente comica, una mossa testata ed efficace.

Pig insomma nasconde dietro la facciata scanzonata i germi delle riflessione impegnata e sfrutta il vantaggio che può derivare dal’adottare la commedia per raccontare argomenti altrimenti tabù, sciogliendo i veti attraverso delle gag a volte macabre. Nella colonna sonora un pò datata, prevalentemente discomusic ed hard rock,  sarebbe forse possibile rintracciare delle incrinature anche se una con una maggiore libertà interpretativa lo si potrebbe considerare soltanto un altro elemento di ambientazione.

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