#Berlinale68 – Marilyn, di Martín Rodríguez Redondo

La storia di un posto alla fine del mondo, che si traveste per farsi notare ed avere una voce, un cinema organico in movimento, che trova nelle sue finzioni un modo di raggiungere un senso. Panorama

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Il cinema cileno e argentino, pur avendo una storia fatta di scontri e frizioni – e con la Cordillera de Los Andes sempre come muro geografico e culturale – sono parenti per default. Entrambi i territori condividono nella loro genesi un senso di precarietà, di essere sospesi sotto l’illusione di una costante “via di sviluppo”, anche senza aver chiarezza assoluta di dove si dovrebbe arrivare. Con diverse tempistiche e modi di fare ma sempre incontrandosi nelle principali tematiche – dittature, desaparecidos, contrasto tra vita di paese e la grande metropoli, precarietà e sviluppo sociale, apertura al mondo – il loro flusso trova oggi una nuova tendenza: quella del cinema LGBT e i diritti delle minoranze nei paesi del “terzo mondo”, che è stata già approfondita in film come Rara, Jesus, Nunca vas a estar solo e il celebre Una mujer fantastica.

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Marilyn, opera prima di Martín Rodríguez Redondo – coproduzione che rappresenta il Cile e l’Argentina nella sezione Panorama – prende un caso reale come spunto per approfondire la storia di Marco – detto anche Marilyn – giovane omosessuale che abita in un piccolo paese vicino Buenos Aires. Silenzioso e taciturno, Marco passa le giornate aiutando il padre contadino a prendersi cura degli animali, guardando da lontano il mondo che lo aspetta dall’altro lato della finestra e giocando con i gioielli e i vestiti a fiori di sua madre (Catalina Saavedra), mentre davanti allo specchio immagina quello che potrebbe essere. Di sera, nel carnevale e dietro una maschera, Marco diventa Marilyn. Lì, il suo silenzio si rende musica e batucada, la solitudine una energia collettiva, il ballo la unica via possibile di espressione. Ma alla fine sempre arriva la mattina, sempre si deve tornare a casa, sempre c’è una madre che segue la traccia di rossetto appena percettibile oppure riconosce la piega in un vestito che lei non ha usato. Alla fine, Marilyn deve sempre tornare ad essere Marco.

Oltre a sentirsi in un corpo che non è suo, Marco è anche fermo in una dimensione

Marilyn2aliena, in un paese dove è vietato parlare a voce alta, farsi notare, indossare colori accesi e nemmeno manifestare la volontà di voler andarsene. E proprio un posto fuori dal mondo da cui nessuno si allontana, perché non conoscono il modo. La minaccia viene sempre da dentro, dal vicino di casa, dalle signore che mormorano alle spalle, dalla assenza di qualcuno che parte prematuramente. A un ritmo tutto suo e sempre in silenzio, Marco si fissa nei dettagli e nei piccoli gesti quotidiani, non solo per ammazzare il tempo e distogliere l’attenzione dallo sguardo brutale della madre, ma anche per costruire, lentamente, piccole tracce di una illusione di futuro: cucendo un bottone, indossando per un attimo un paio di tacchi, mungendo la mucca della famiglia con tutta calma, lavando i piatti, truccando gli occhi della sua amica. Ma anche se questi frammenti portano con sé un certo senso di pace, non riescono a costruire una nuova dimensione dove Marco possa rifugiarsi e forse scappare in modo definitivo.

Il regista costruisce anche così il suo racconto, in silenzio, senza musica, fissato sul viso di Marco, lasciando come unico suono il rumore di un motorino che si avvicina e si allontana, rappresentando allo stesso tempo il pericolo e l’adrenalina della scoperta. Il suo cinema – a volte ripetitivo e sfruttando fino all’esaurimento la risorsa dello sguardo silenzioso e la tensione di “ciò che non viene detto” –  è pieno di strade vuote che si incrociano, che Marco continua a percorrere da solo e che di solito non arrivano da nessuna parte. Ma più che scoprire dove andranno a finire, la questione è che gli permettono di continuare a muoversi. Ed è la mobilità, la possibilità di un trasformazione, ciò che lo mantiene vivo. 

Marilyn è anche la storia di un posto alla fine del mondo, che si traveste per farsi notare ed avere una voce, oppure di un cinema organico in continuo movimento, che trova nelle sue finzioni un modo di raggiungere un senso, la sua propria verità.

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