#Berlinale69 – Systemsprenger, di Nora Fingscheidt

Nora Fingscheidt porta in concorso Systemsprenger, drammatico ritratto di una ragazzina problematica che con il suo comportamento apre una falla nel sistema di affidamento e recupero statale

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Benni è una ragazzina complicata, incapace di accettare una qualsivoglia idea di struttura. Rifiuto che prende origine dal rapporto spezzato con la madre, inadatta e debole nel gestirne il carattere esuberante. Il ricorso all’affidamento familiare, lungi dal diventare una soluzione, finisce per aggravare il problema. Da questo pregresso nasce la storia che Nora Fingscheidt ha deciso di raccontare, forte di illustri precendenti di disagio come Mommy di Xavier Dolan o anche E ora parliamo di Kevin di Lynne Ramsay.

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La regista e sceneggiatrice tedesca, giunta al terzo lungometraggio dopo Brüderlein ed il documentario Ohne diese Welt, spinge il dato anagrafico della sua protagonista  ancora più in basso. Bernadette (Helena Zengel) ha soltanto 9 anni, sufficienti tuttavia per collezionare una lunga lista di richiami ed espulsioni da un istituto dietro l’altro, in una fase in cui i disturbi si mostrano con tutta la loro virulenza. La fama ormai la precede, così scomoda da decimare le strutture disposte ad accoglierla, ed in una di queste, predisposta anche al suo reinserimento scolastico, vengono evidenziate tutte le lacune metodologiche del sistema, compromesse da un’anomalia psicotica pericolosa, in ogni improvvisa esplosione di violenza incontrollata, per l’incolumità propria e degli altri ospiti. Tramite i gesti sconsiderati, che all’indisciplina uniscono un continuo superare la soglia del comportamento tollerabile, la stabilità dei numerosi tutori viene continuamente messa alla prova e condotta all’esasperazione, uno stato d’impotenza sottolineato dalle grida mortificanti che accompagnano i convulsi accessi d’ira.

Proprio sulla decostruzione delle certezze, invece che sull’analisi delle cause, viene basata la storia, escluso qualche veloce flashback di passata armonia domestica, un balletto che danza su diverse forme d’angoscia, mutazioni estetiche per un medesimo totale a somma zero. I deboli segnali di guarigione, piuttosto che annunciare esito positivo, nel fallimento riducono i margini di speranza, apoteosi tragica raggiunta dopo l’ultimo mancato ricongiungimento. Terapie innovative, contributo farmacologico, percorsi personalizzati di gestione della rabbia, trasgressione del protocollo, sono misure che una dopo l’altra tradiscono impotenza. La fragilità vive nei deliranti movimenti della camera, nelle dissolvenze dalle parti dell’ultravioletto quando lo sguardo sembra sul punto di crollare, nell’intimità svanita anche quando sembrerebbe a portata di mano, come una ferita che non vuole saperne di guarire e l’atto denigratorio diviene l’emblema di una divergenza. In fondo la stessa ribellione, assunta come autolesionistica richiesta d’aiuto in questa continua perdita di punti d’appoggio, non ottiene altro risultato che rendere la distanza sempre maggiore.

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