#Berlinale70 – El prófugo, di Natalia Meta

In Concorso, la cineasta argentina gira un new horror dissonante che conferma la predilezione attuale del genere per una femminilità ancestrale e pagana, con una spiccata propensione performativa

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A 6 anni dal successo del suo precedente Muerte en Buenos Aires, piccolo cult in patria con Demián Bichir, la cineasta argentina Natalia Meta tenta un’operazione a metà tra gli esperimenti in stile Berberian Sound Studio, e le esploriazioni delle vibrazioni del corpo femminile che abitano certo cinema festivaliero recente come Fugue di Agnieszka Smorczynska o l’ultima fase di Sebastián Lelio, per dirne un paio. Ciò conferma ulteriormente come il new horror della corrente generazione di sguardi arthouse parli il linguaggio di una femminilità ancestrale e prepotentemente pagana, con una spiccata propensione performativa, come abbiamo raccontato più volte: Meta non si esime dalla pratica degli omaggi ai padri fondatori di questo esoterismo uterino, con aperti riferimenti alla tradizione italiana degli Argento e dei Fulci, ma è forse più interessante quando lambisce Polanski.
Non tutto ci verrà fortunatamente chiarito alla fine di questa immersione nell’incubo di Inés, soprano e doppiatrice che si trova all’improvviso la propria voce “posseduta” da interferenze provenienti dalla dimensione del suo inconscio, e che disturbano letteralmente i campi magnetici intorno a lei sussurrando parole oscure tra i respiri della donna.

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In questo senso, nell’ottica di un grottesco nerissimo e portatore di un senso continuo di ambiguità e minaccia, il prologo con la vacanza d’amore tra la protagonista e il suo insopportabile compagno è di sorprendente efficacia, fino alla sequenza centrale del litigio notturno in camera. Poi il film si perde un po’ (accantonando la forte dimensione acquatica, se non proprio subacquea, dell’incipit) nell’ambizione di farsi riflessione teorica sulle onde sonore prodotte dal corpo umano e sul magnetismo emesso dai nostri sentimenti, nel gioco a scatole cinesi tra allucinazione e realtà, visitazioni di questi “intrusi” che perseguitano Inés (il Nahuel Pérez Biscayart di 120 battiti al minuto, e la guest appearance di Cecilia Roth), e flusso musicale legato ad accordature di organi a canne, corali di voci bianche e doppiaggi di film horror tutti sussurri e grida.
La concezione coreografica di questa letterale partitura filmica è forse il tocco più leggiadro di El prófugo, chiaramente tutto concentrato intorno alla prova dell’interprete Érica Rivas (vista in Tetro di Coppola), che accetta la sfida dello scan continuo che il Natalia Meta opererà lungo tutto il film sui tarantismi isterici della donna.
Probabilmente uno sguardo più convinto e coraggioso avrebbe giocato in maniera ancora più scoperta e dissonante sulla sottotraccia rumorista e sludge della situazione, ma in un impianto simile non stupisce l’attenzione che la cinasta pone all’aspetto del commento musicale, sia con le scelte di repertorio per nulla scontate, che con la notevole colonna sonora elettroacustica di Luciano Azzigotti.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2 (1 voto)
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