#Berlinale70 – Irradiés, di Rithy Panh

In Concorso Panh rilancia sul suo abituale impianto narrativo e formale tra poesia e footage, con un esperimento in split screen trino per confinare l’orrore del Novecento tra le barre degli schermi

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Eppure ci deve essere un modo per fermare il flusso della morte che irradia dal 20esimo secolo, e non basta spezzare o far specchiare le immagini in uno split screen trino per interrompere l’eco sconcertante dell’odio indicibile che questo repertorio porta con sé, ancora intatto, cristallino e pronto a divampare nuovamente. Irradiés è allora il nuovo dispositivo escogitato da Rithy Panh per disinnescare la portata demoniaca di questo archivio di immagini che lo/ci perseguita, la grande maledizione del cinema di poter rinnovare ogni volta l’orrore di massacri, genocidi, esecuzioni di massa e abissi della Storia, dall’atomica all’Olocausto al sangue cambogiano versato dai khmer rossi.
E dunque, come detto, Panh si inventa questo trittico da pala d’altare attraverso il quale filtrare l’enorme quantitativo di footage come al solito tirato in ballo: il punto è verosimilmente dimostrare come il Male sia capace di irradiarsi da una sezione all’altra dell’immagine, facendosi beffe delle barriere degli schermi, esondando da un lato all’altro dei frammenti che il regista tiene insieme da epoche diverse di questa memoria nera del Novecento. Insieme alla raccolta anonima di testimonianze filmate agghiaccianti di quanta violenza l’uomo possa infliggere ai suoi simili e alla natura, Irradiés porta nel lotto anche i segni di tutta una traccia di cinema che ha riflettuto su temi analoghi (passando ovviamente da Jean Rouch, Alain Resnais…), e che per forza di cose dialoga con l’immaginario storico del secolo: tra le voci narranti la presenza di Marceline Loridan fa assumere al senso di quanto stiamo vedendo una rilevanza ancora maggiore.

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Al di là di tutto, Rithy Panh non possiede però la capacità evocativa, combinatoria e generativa dell’ultimo Jean-Luc Godard, e sembra rischiare più volte di perdersi nell’impianto probabilmente più complesso dell’intera sua filmografia (anche più dei già iper-stratificati Immagine mancante e Exil, qui letteralmente citati in un film che è anche una sorta di sintesi semiotica di tutti i precedenti di Panh), ulteriormente attraversato anche da inserti performativi legati al teatro classico giapponese.
Il dolore è una forma di conoscenza, si dice ad un certo punto, e mai come in questi ultimi tempi stiamo imparando a riorganizzare la fruizione della nostra conoscenza del mondo e della Storia con modalità che non seguono più progressioni cronologiche o salti “ragionati”, o l’ordine geometrico di barriere troppo strette: si tratta del passaggio che prima o poi il cinema sempre necessario di Rithy Panh si dovrà decidere a compiere, e il cui progressivo flirtare con le pratiche delle arti visive più espanse appare come una direzione già scritta – indubbiamente la natura circolare di Irradiés, fatta di loop e pattern ben precisi, e la sua conformazione a schermi dialoganti fanno venire la suggestione che la destinazione finale dell’opera possa essere non soltanto quella della sala, ma la riscrittura continua della fruizione erratica di una situazione installativa.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.4

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
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