#Berlinale70 – Le sel des larmes, di Philippe Garrel

Giovinezza e amori di un provinciale. Garrel gioca con le forme di un cinema che, forse, non c’è più, ma che per evocazione continua a tornare in vita. E a insistere sull’essenziale. In concorso.

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Storia di un provinciale. Come tante. Giovinezza e amori di Luc, tra donne, studio e lavoro, aspirazioni, desideri e rimpianti. La vita, insomma. Ciò che tocca tutti e che Garrel prova ancora una volta a incrociare tra le immagini e la scrittura. Con la delicatezza dello sguardo e il dolore della sincerità. Perché tutto è semplice, ma fottutamente complicato. E in Garrel il sentimento sembra la cosa più naturale di questo mondo. Basta uno sguardo per incontrarsi e un saluto per riconoscersi. Come accade tra Luc e Djamila che si incrociano alla fermata dell’autobus, da un marciapiede all’altro. Non c’è mai nulla di troppo difficile al principio. I problemi vengono solo poi, le incomprensioni e le distanze, le ferite, i rimorsi.

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Non so, se la storia del dopo è senz’altro vera e comprensibile, occorre una predisposizione particolare, una certa purezza, per immaginare e vivere l’inizio con una simile naturalezza. Ma in questa semplicità pare manca qualcosa, una furia, una passione, quel groppo alla pancia e alla gola che sta tra il desiderio e la paura. La paura… sì forse Garrel non conosce la paura. Per lui il sentimento è un bisogno vitale, l’unico davvero insopprimibile. È come il respiro. Ma è anche vero che più si va avanti tra le immagini e le pagine di questa infinita educazione sentimentale, più sembra che l’amore abbia senso solo a posteriori, posso essere definito soltanto dalla lontananza di uno sguardo che si volge all’indietro. Come se l’unico tempo possibile dell’amore fosse quel passé simple, mai troppo semplice in verità, della voce narrante che sa di letteratura. Come se non ci fosse possibilità di inquadrarlo se non dall’astrazione suprema del bianco e nero di Renato Berta, dai margini del buio, della perdita, della mancanza. Il desiderio non misura la distanza da ciò che non abbiamo mai avuto, perché non lo conosciamo. Misura la distanza da ciò che abbiamo sfiorato, seppur per un attimo breve. Da ciò che ormai appartiene alla dimensione del ricordo, della vita vissuta, al participio passato di una storia conclusa.

Chissà se è per questo che il cinema di Garrel, oggi, parla la lingua di un’altra generazione e appare, sia detto senza offesa, invecchiato, come il volto e le mani tremanti di André Wilms, il padre dall’animo di poeta, davvero il personaggio più bello e generoso de Le sel des larmes. Che guarda ai travagli del cuore di Luc e delle persone che lo circondano, con la tenerezza e la comprensione dell’esperienza. Che sta vicino, ma non impone, che sa uscire di scena in silenzio quando il momento è arrivato. È in fondo quello tra padre e figlio il rapporto d’amore più puro del film. Nonostante anche qui ci siano le distanze, le paure, il peso delle responsabilità e dei sensi di colpa. Semplicemente quel legame non può essere rifiutato, dimenticato. Non può essere separato se non dall’irreparabile, là dove la rottura è definitiva e la disperazione totale. Mi mancherà tutto questo. Sei tu che mi mancherai…

Sì, Garrel gioca con le forme di un cinema che, forse, non c’è più, ma che per evocazione continua a tornare in vita.  E a insistere sull’essenziale. Tra scritture flaubertiane e parole truffautiane, tra punteggiature antiche e musiche per piano. Anche Garrel guarda ai suoi ragazzi e a noi con l’oggettività di chi ha visto e saputo, ma con la partecipazione di chi continua a gioire e soffrire. Sa ancora cogliere la frenesia incontenibile di un’altra magnifica scena in discoteca. Ma non trattiene più del dovuto. E lascia andare le cose con la tenerezza infinita di una dissolvenza.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
2.67 (3 voti)
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