#Berlinale70 – Politiche dello sguardo

C’è, forse, il sospetto di un arroccamento su posizioni di intransigenza intellettuale. Ma al di là di tutto, è stata un’edizione di alto livello, capace di lasciare segni profondi

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Ancora una volta il medioriente. Dopo la vittoria di Synonymes di Nadav Lapid l’anno scorso, ecco l’Orso d’Oro a There Is No Evil di Mohammad Rasoulof. Da Israele all’Iran, che torna ad affermarsi a distanza di cinque anni da Taxi Teheran di Jafar Panahi. Prove di equilibrismi geopolitici, verrebbe da dire. Ma, al di là delle battute, il premio a Rasoulof conferma a pieno la vocazione “politica” della Berlinale, così come si era imposta durante il lungo periodo della direzione Kosslick. Un regista in rotta con il potere, condannato in patria per il suo cinema non allineato (al punto che, proprio come Panahi, non ha potuto ritirare di persona il premio). E che con il suo ultimo film cerca ancora una volta di mettere in luce tutte le distorsioni del regime: quattro “novelle” sulla questione della pena di morte e sui dilemmi morale delle forze dell’ordine. Cinema di “contenuto”, dunque, in linea con la parola d’ordine dell’addio di Kosslick, “il personale che si fa politica”. E in perfetta sintonia con gli intenti del presidente di giuria Jeremy Irons, che sin dall’inizio aveva dichiarato di essere in cerca di tematiche forti piuttosto che di consapevolezze formali e teoriche.

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Senza nulla togliere ai meriti di There Is No Evil, alla sensibilità di Rasoulof nell’utilizzo degli spazi e dei ritmi, alla sua capacità di tirar fuori il meglio dagli attori e di dar prova di un’economia del racconto, ciò che emerge è il segno di una persistenza d’onda che non si discosta dalle tendenze degli ultimi anni. Confermate, nella sostanza, dalla prospettiva politica dell’Orso d’argento al dinamitardo e lucidissimo Effacer l’historique di Delépine e Kervern, film magnificamente scorretto dal punto di vista delle situazioni e delle forme, che racconta una sgangherata e umanissima strategia di resistenza alle derive compulsive del capitalismo della sorveglianza. O dal premio alla sceneggiatura a Favolacce dei fratelli D’Innocenzo, che replica in tutto e per tutto il riconoscimento dello scorso anno a La paranza dei bambini di Claudio Giovannesi: due film che, del resto, continuano ad affondare lo sguardo nelle periferie, seppur da prospettive e con intenti diversi. Ripetiamo, non è un giudizio di valore o di merito, ma a giudicare dal palmarès, non sembra esserci stato un cambio di linea. Ma allora, quali sono i segnali nuovi della prima edizione diretta da Carlo Chatrian?

Partiamo da lontano, da alcune foto che circolavano sui social già da alcune settimane e che mostravano i corridoi e i locali vuoti dell’Arkaden, il centro commerciale che si affaccia sul Berlinale Palast. C’era un’aria sinistra, un che di apocalittico. E, difatti, è stata una Berlinale strana, in parte segnata dalle notizie sulla diffusione del coronavirus che hanno guastato la festa. Nonostante l’ostentata indifferenza dei tedeschi, i cartelli, gli annunci, i giganteschi contenitori di disinfettanti in ogni bagno pubblico stavano lì come un monito. Poi, a poco a poco, l’inquietudine ha cominciato a serpeggiare, insieme a una certa diffidenza riscontrata nei confronti degli italiani. D’altra parte sono emerse alcune questioni logistiche, per lo più dovute alla chiusura del Cinestar, il multisala del Sony Center, e alla crisi di presenze che sta attraversando tutta l’area di Potsdamer Platz, proprio lì dove sorge il centro nevralgico del festival, tra il Berlinale Palast, il Cinemaxx, la sala stampa dell’Hyatt Hotel. Una crisi che si cerca di arginare con progetti di rinnovo e riqualificazione (per questo l’Arkaden era semideserto). Qualcuno ha storto il naso rispetto a questi cambiamenti visibili, pratici. Senza contare che per un festival che vuole accordarsi alle traiettorie urbane, che vive in simbiosi con la città, è del tutto naturale ripensare le proprie strategie e coordinate in base alle trasformazioni del contesto. Del resto, l’aumento di presenze registrato dai dati ufficiali mostra come il pubblico berlinese sia abituato alla velocità di cambiamento di una metropoli di gru e cantieri. E non meraviglierebbe vedere, che so, tra un paio d’anni, la geografia del festival in gran parte stravolta.

Ma riguardo ai film? È parso evidente come la selezione ufficiale di Chatrian e della sua squadra abbia tentato di puntare da un lato sul cinema d’autore più rigoroso, dall’altro su una linea di ricerca innovativa, che rischia però di fare a pugni e di togliere spazi al Forum, per tradizione l’anima più vitale e sperimentale del festival. In questo senso la cartina da tornasole doveva essere la neonata sezione Encounters. Che, dopo aver aperto con l’enorme, straordinario Malmkrog di Cristi Puiu, si è mossa lungo un ampio ventaglio. Dalla rivisitazione transgender del mito d’Orfeo di Alexander Kluge e Khavn alle esplorazioni urbane di Heinz Emigholz, dalle otto ore georgiche di The Works and Days (of Tayoko Shiojiri in the Shiotani Basin) di C. W. Winters e Anders Edström, le opere e i giorni di un contadino di un villaggio nella campagna intorno a Kyoto, alle parabole politiche di Los conductos di Camilo Restrepo e Funny Face di Tim Sutton. Ecco, secondo le intenzioni, Encounters dovrebbe essere uno specchio delle forme di produzione ed espressione del ventunesimo secolo. Ma c’è il sospetto di una battaglia leggermente di retroguardia. Conseguenza, forse, di un atteggiamento cinefilo severo e austero, che traspare da altre scelte del concorso, non del tutto scontate, come Irradiés di Rithy Panh, film che, peraltro, sembra soffrire di un eccesso di retorica derivativa.

Tutto a voler confermare l’immagine di una Berlinale come luogo di ricerca e resistenza culturale, al di là delle mode, delle strategie di posizionamento glamour. Certo, gli appuntamenti mainstream non sono mancati, come Onward, il film Pixar di Dan Scanlon, o le prime due puntate della serie Netflix di Damien Chazelle, The Eddie. Ma, come già capitato gli scorsi anni, si sono dissolti nell’intrico dei programmi. Alla fine, il vero evento, almeno nelle intenzioni, è stato DAU, il progetto folle e titanico di Ilya Khrzhanovskiy, presente con ben due film, uno in concorso, un altro (di sei ore) in Berlinale Special. A riprova, forse, di un arroccamento su posizioni di intransigenza intellettuale, a discapito di un discorso più generale e ampio sulla politica culturale, le strategie industriali e le modalità di consumo, le frontiere della visione. Ma al di là di tutto, è stata un’edizione di alto livello, capace di lasciare segni profondi. In concorso, a parte i film di Rasoulof e di Delépine e Kervern, i meravigliosi silenzi di Tsai Ming-liang, che dimostra sempre più una semplicità vertiginosa, stratificata. Al pari di Hong Sang-soo che pare giocare, non far nulla di serio, ma sa costruire rapporti e idee semplicemente con la messinscena, le traiettorie degli sguardi, la distribuzione dei corpi nello spazio. E ancora le odissee sentimentali di Garrel, l’irriverente western “di classe” di Kelly Reichardt, l’immediatezza del racconto adolescenziale di Never Rarely Sometimes Always di Eliza Hittman, le allucinazioni siberiane di Ferrara, le discrasie temporali di Todos os mortos di Marco Dutra e Caetano Gotardo.

E altrove, in Forum, le tecnofatiche d’Ercole di Zeus Machine di Zapruder, La casa dell’amore di Luca Ferri, lo splendido e toccante Seishin 0 di Soda, che con le sue invasioni osservazionali torna ai personaggi di Mental, il suo doc del 2008, per racconta l’amaro, dolce crepuscolo della vecchiaia. E ancora, Petite Fille di Sébastien Lifshitz, Notes from the Underworld, di Tizza Covi e Rainer Frimmel, in Panorama Dokumente, Sweet Thing di Alexander Rockwell in Generation… Ma soprattutto, la fine del mondo di Puiu, che davvero lancia una sfida allo spettatore e alla sua capacità di adeguarsi a ritmi completamente alieni. Oltre i limiti della storia e dello sguardo.

 

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