#Berlinale73 – Incontro con Steven Spielberg

Steven Spielberg ha ricevuto ieri l’Orso d’oro alla carriera attribuitogli dalla Berlinale 2023; ci ha parlato dei suoi film, dei grandi cineasti con cui ha collaborato, la sua famiglia e il futuro

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“Devo aver avuto 7 o 8 anni, ho rubato mezzo dollaro dal vaso di spicci che avevamo nel salone di casa e mi sono avventurato da solo per andare al cinema. I miei genitori mi avevano proibito il film, troppo violento. Mi sono fatto due chilometri e mezzo a piedi per vedere Sentieri Selvaggi. Non ho capito molto del film all’epoca, mi è dispiaciuto che i miei genitori non fossero con me a spiegarmelo.” Ha inizio così l’incontro con il maestro Steven Spielberg che ha ricevuto l’Orso d’oro alla carriera alla 73° edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino.
La sala conferenze del Grand Hyatt Hotel è stracolma.
Il regista vive ancora la stessa passione nei confronti del cinema, la stessa forza motrice che ha provato quando era un bambino, è un sentimento ancora fresco, ci racconta.
Non sa dire quale sia il film preferito della sua carriera, “Sarà forse un cliché ma i miei film sono come dei figli”, ammette. “Però vi dirò che Lo squalo è stato probabilmente il più difficile da un punto di vista fisico; mentre fino a poco tempo fa Schinder’s List era quello che consideravo il più difficile da un punto di vista emotivo, ma ora direi proprio che è The Fabelmans.
Girando il film sulla sua famiglia e sulla sua infanzia si è dovuto confrontare con i traumi del passato, il divorzio dei genitori prima di tutto. Mettere in scena quel dolore è stato molto difficile. Si tratta, infatti, di un film che il regista aveva sempre voluto fare ma gli era mancato il coraggio di confrontarsi con le sofferenze più forti che avesse vissuto.
La madre di Spielberg celebrava la vita tutti i giorni, era sempre reattiva. Era il genere di donna che si metteva al volante nel mezzo della notte per andare a osservare le stelle nel deserto. Più volte gli disse “ti ho dato così tanto materiale, possibile che tu non abbia ancora fatto un film su di me e la nostra famiglia?”, ad un certo punto ha dovuto ascoltarla. Non manca la commozione: “È una coincidenza un po’ strana, mia mamma se n’è andata sei anni fa, oggi”, racconta il maestro all’incontro.
Non sa se si sia trattato di una decisione conscia o meno, quella di mettere insieme il suo film più personale a questo punto della vita. Racconta che il coraggio per ripercorrere i traumi infantili lo ha trovato durante la pandemia. “Il covid mi ha fatto pensare tanto alla mortalità, lo stare chiusi in casa, mi ha dato tempo per pensare e riflettere”, soli a casa, isolati dal mondo, Spielberg, la moglie, i loro figli e il cane. Non erano ancora finiti i lavori di post-produzione di West Side Story quando il regista si è lanciato indietro nel tempo per costruire l’universo della sua infanzia.
Il suo cognome Spielberg in austriaco significa “playtown” o “playmountain”; decise da giovane di chiamare la sua produzione Playmount Productions: “Stavo copiando la Paramount. Ridere di me stesso è stato importante, mi ha insegnato a giocare. Ho capito che per lavorare bene devo divertirmi. Il gioco è un aspetto importantissimo, in qualche modo è sempre presente nei miei film.”
Ripercorre la sua carriera, i grandi registi con cui ha collaborato. Truffaut è stato importante, “Mi guardò e mi disse, con il suo inglese masticato, Steven tu hai il cuore di un bambino. Devi fare dei film con i bambini.” Fu proprio quel commento che spinse Spielberg a fare E.T. I due hanno lavorato insieme quattro mesi a Incontri ravvicinati del terzo tipo, c’era una grande amicizia, una grande sintonia.
Fondamentale anche John Ford, “uno dei più grandi registi di sempre”, commenta Spielberg. Non fu in grado di apprezzare la sua durezza quando lo incontrò, all’età di sedici anni. Con il tempo, però, si è reso conto di quanto fondamentale fossero i suggerimenti che gli aveva dato, dietro la sua maschera. “La scena che vedete in The Fabelmans, dove lo incontro nel suo ufficio, è la più accurata di tutto il film. Ricordo parola per parola. Mi spaventai e fui molto imbarazzato da ciò che mi disse; impossibile da dimenticare.”
Grandi nomi del cinema, per arrivare a narrarci il suo rapporto con Stanley Kubrick. “Stavo girando I predatori dell’arca perduta, ci conoscemmo nel 1979 e mi invitò a cena. Da quel momento siamo diventati grandi amici, fino alla sua scomparsa. Sono onorato di aver fatto la sua conoscenza e di averci passato del tempo insieme. L’unico film che abbiamo pensato di fare insieme è stato A.I.” Nonostante ciò, Spielberg rimedierà alla mancata collaborazione: “Stiamo mettendo insieme una grande produzione per HBO, con la collaborazione di Christiane Kubrick, basata sulla sceneggiatura originale scritta da Kubrick: Napoleon. Sarà una limited series divisa in sette parti.”
Quando il moderatore Rainer Rother fa cenno al regista che è tempo di andare, Spielberg, con il suo fare paziente e buono risponde “Ma stiamo un altro po’, se ci sono tutte queste persone che vogliono parlarmi e ascoltarmi qualcosa di buono lo avrò pur fatto.”
Resta, dedicando altri minuti preziosi alla folla di giornalisti impazzita dall’emozione. Parla dell’importanza della USC Shoah Foundation: “Volevo fare qualcosa oltre al cinema. Sono fiero di questo lavoro. Abbiamo cominciato a raccogliere le testimonianze proprio qui a Berlino, tanti anni fa. Ora ci siamo allargati, non si tratta solo delle vittime dell’Olocausto ma anche quelle dei genocidi in Armenia, Cambogia, Rwanda.”
Tante le domande dei giornalisti presenti in sala rispetto ai consigli per giovani cineasti. Il cineasta ci spiega cosa sia per lui un film: “Avete presente le tessere di un mosaico? Usiamo questa metafora: quando le mettete tutte insieme formano un’immagine, grande, che è il film. Voi non dovete pensare all’immagine grande, concentratevi sui dettagli, concentratevi su ogni piccola tessera; poi la grandezza verrà da sé, in modo naturale. Ogni scena che dirigo deve avere una motivazione; mi chiedo sempre, cosa sta dicendo questa scena? Non devono esistere personaggi secondari, nessun personaggio è secondario perché ognuno di essi contribuisce alla narrazione. Se ci sono personaggi non importanti significa che c’è un problema nella sceneggiatura.”
Umilmente conclude parlando del premio. “L’Orso d’oro alla carriera mi spinge a guardare indietro, al passato. È un punto di arrivo incredibilmente alto, dire che sono onorato è poco.” Il grande onore lo costringe in qualche modo a riflettere, è la prima volta dopo tanto tempo che il regista non è completamente assorto in un progetto e si ritrova ad avere lo spazio per pensare. “A cosa lavorerò adesso? Bella domanda, ho quest’anno per pensarci su.”

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