Bettina, di Lutz Pehrert

Tra la celebrazione e il resoconto storico, il documentario vincitore dell’edizione romana del Salina DocFest è ancorato ad uno sguardo accademico, ma Bettina Wegner riesce ancora a vibrare

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La figura di Bettina Wegner nel documentario diretto da Lutz Pehrert, che ha vinto il Grand Prix Internazionale nell’ultimo Salina DocFest edizione romana, affronta la pratica diffusa della replicazione corporea dell’artista in relazione con lo scorrimento del tempo storico a cui appartiene, come tentato da Todd Haynes con Io non sono qui, e in parte Luhrmann con il suo Elvis. Anche con Bettina assistiamo ad una, pur restia, disgregazione della figura della cantante tedesca attraverso il corso della sua cronistoria. Forse perché è un’idea, quella apportata dal cinema contemporaneo, di considerare le nascite delle grandi icone musicali, o in generale dello show business, come i frutti del moto perpetuo della storia. Clonare continuamente i loro corpi e farne delle istantanee in movimento, legate indissolubilmente al periodo a cui apparterranno per l’eternità, è un modo di portare la loro storia ad una maggior globalità e comprensione. E la storia di Bettina Wegner, forse più un’attivista che cantautrice, ne è l’ennesima prova. Una delle voci più potenti della generazione tedesca del secondo dopoguerra, rappresenta perfettamente il baratro culturale in cui versava la Germania di quegli anni, e Pehrert descrive questo spaccato attraverso la tripartizione corporale e spaziale dell’artista, replicata nelle sue molteplici forme passate e presenti.

E sicuramente la versione giovanile di Bettina rappresenta la fonte più interessante di tutta l’opera. La voce, lo sguardo che descrive la nascita del proprio background musicale. Dalle sonorità del folk americano (Joan Baez nonostante la poca popolarità ne era una grande estimatrice), all’impellente bisogno della denuncia sociale (ripreso dallo stesso Dylan). Purtroppo Bettina sembra sposare un atteggiamento accademico nel ritrarre la sua protagonista, decidendo di immagazzinarla in luoghi chiusi, circoscritti, recintati, forse con la cognizione di rendere la sua figura simile ad una grande oratrice del mondo classico, che con la sua parola destava le menti dei suoi ascoltatori. Ma, viste le strutture di base del prodotto, forse c’era il bisogno invece di dare maggior respiro alla visione di Bettina. Di renderla il vero mezzo di divulgazione dei grandi cambiamenti che ha attraversato la Germania del passato, mai come in questo caso simile invece ad uno sconfinato non-luogo, dove anche le immagini d’archivio sembrano le semplici coperture di una storia che conserva ancora una propria urgenza vitale.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.8
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