“Betty Love” di Neil LaBute

LaBute costruisce una sottotraccia di thriller di genere, fino a giungere (ed è questo che ci interessa di più) ad una vera e propria sovrapposizione di diversi piani della messinscena.

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“Betty Love” non è il nome di un programma televisivo, non è neanche il titolo di un serial di successo trasmesso per tanti anni in televisione. Si appresta a diventarlo, forse, ma ancora non lo è. Bisognerebbe spiegarlo alla protagonista del film di LaBute, che si chiama Betty Love, ma che significa assuefazione costante all’idea d’essere ciò che in realtà non si è. Casalinga annoiata alle prese con la quotidianità irritante composta da un marito assente e da una casa da mandare avanti, Betty sogna di essere ciò che vede in televisione. Un simulacro di realtà, siamo d’accordo, ma perfettamente aderente ai sogni proibiti di una casalinga frustrata. La osserviamo mentre lotta al centro di una prospettiva divisa in due parti opposte, televisione da una parte, cinema dall’altra. La vicinanza al tubo catodico è forte, costante, quasi assimilata da due occhi avidi di “frame” provenienti dal grande mondo della finzione. Betty sogna un mondo mentre si trova a viverne un altro, ma gli estremi del suo peregrinaggio su crinali di senso precari ed incerti sono più stabili di quanto si possa immaginare. Nella grande sfera della finzione tutto è possibile. Le distanze abitano uno spazio percorribile con il solo battito di ciglia e il tempo del vedere corrisponde a quello del vivere, dell’agire. Betty siamo noi, spettatori in procinto di fruire di una qualche rappresentazione che ci scaldi il cuore e che ci faccia aprire gli occhi (sublime paradosso del sognare/viaggiare da fermi, in un’oscurità totale) sulla effettiva portata della realtà che ci si profila di fronte. Fin quando poi non si comincerà a creare una speciale empatia con la carne visibile del mostrato, fino a diventarne una parte sola, un unico corpo, una sola massa desiderante altri occhi da vedere, altri corpi da toccare. Betty Love (nome omen per un desiderio spinto al punto tale da autorappresentarsi quale ultima deriva di un contatto negato in partenza) dunque, come volontà di esserci laddove la nostra presenza fisica non verrebbe richiesta, laddove la produzione di un possibile senso sembra vertere solo e soltanto su un’immedesimazione artificiale, artefatta da quella distanza incolmabile tra soggetto vedente ed oggetto rappresentato. L’amore smisurato per le telenovelas è l’indizio/spia luminosa del voler giungere in quello spazio franco in cui poter vivere davvero, senza compromessi, senza sofferenze, senza attaccamenti. E’ sinonimo di vera e propria sostituzione di un universo ancora reale, sebbene tragico (la terribile monotonia di giorni sempre uguali, di ore che non cambiano) con una produzione di immagini, di segni provenienti da un altrove colonizzato dalla forza di un sentimento tramutatosi in atto (quello del vedere a tutti i costi, quello del non perdersi mai nemmeno una puntata del proprio serial televisivo preferito). Ecco dunque come Betty si trovi nella condizione di poter vivere due volte, mescolando le carte di un’esistenza contenuta nel tempo reale della vita, con quella riprodotta della durata filmica, occupando la stessa porzione di messinscena in due vesti differenti: soggetto ed oggetto della visione. Da questo sdoppiamento tutto contenuto all’interno di uno stesso schermo irradiatore (che sia quello della casa della protagonista, o lo schermo cinematografico, non importa), LaBute costruisce una sottotraccia di thriller di genere, fino a giungere (ed è questo che ci interessa di più) ad una vera e propria sovrapposizione di diversi piani della messinscena, tali da provocare un improvviso abbaglio percettivo in chi intendeva rapportarsi al narrato seguendo una sola traccia, percorrendo un solo sentiero. Fino ad ottenere nel finale, la visione di quell’immagine piena, autentica, che campeggiava dall’inizio dell’opera: la protagonista diventa a sua volta l’interprete, il soggetto partecipante e non più solo vedente, del serial seguito con partecipazione per tanti anni. Racchiudendo la propria immagine all’interno del contorno oculare più adatto: quello di una sovrimpressione di corpi in dissolvenza. Dei nostri corpi in dissolvenza.Titolo originale: Nurse Betty
Regia: Neil LaBute
Sceneggiatura: John C. Richards, James Flemberg
Fotografia: Jean-Yves Escoffier
Montaggio: Joel Plotch, Steven Weisberg
Musica: Rolfe Kent
Scenografia: Charles Breen
Costumi: Lynette Meyer
Interpreti: Renée Zellweger (Betty Sizemore), Morgan Freeman (Charlie), Chris Rock (Wesley), Greg Kinnear (dr. David Ravell/George McCord), Aaron Eckhart (Del Sizemore), Tia Texada (Rosa), Crispin Glover (Rpy), Pruitt Taylor Vince (Ballard), Allison Janney (Lyla Branch), Kathleen Wilhoite (Sue Ann), Elizabeth Mitchell (Chloe)
Produzione: Steve Golin, Gail Mutrux per Gramercy Pictures/IMF/Pacifica Film/Propaganda Films/ab’-strakt pictures
Distribuzione: U.I.P.
Durata: 110’
Origine: Usa/Germania, 2000

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