BFM43 – Incontro con Ari Folman
In chiusura del BFM43, si è svolto l’incontro con il regista del film Valzer con Bashir. Si è parlato di quella particolare esperienza produttiva e del rapporto del regista con il cinema d’animazione

Negli ultimi anni, l’interesse nei confronti del documentario animato si è fatto sempre più evidente, ne sono un esempio la presenza di questa categoria cinematografica in alcuni festival settoriali come il DOK Leipzig (per il cinema documentario) o l’Annecy (per il cinema d’animazione). La sfida di immergersi nelle nuove tendenze del cinema d’animazione, attraverso un percorso alla scoperta del documentario animato, è stata raccolta anche dall’appena conclusa 43esima edizione del Bergamo Film Meeting, un festival da sempre attento nel costruire all’interno del proprio programma un dialogo trasversale tra la storia del cinema e le nuove sensibilità cinematografiche. E così, ecco la sezione Anreal, con ben quindici documentari animati. Si parte dal 1918, anno di realizzazione di The Sinking Of The Lusitania, dove l’autore da Winsor McCay utilizza l’animazione per documentare la tragedia dell’affondamento del noto transatlantico inglese da parte di un sommergibile tedesco nel 1915.
All’interno dell’accurata selezione di titoli troviamo anche il film che ha portato il documentario animato alla sua affermazione definitiva: Valzer con Bashir di Ari Folman. Opera che, nel 2008 al 61esimo Festival di Cannes, legittimò agli occhi della critica questa tipologia di narrazione filmica. Da quel momento, l’animazione come modalità di documentazione diventò, così, parte integrante dei programmi festivalieri, acquisendo legittimità e incontrando un forte interesse anche da parte del pubblico.
In occasione della proiezione di Valzer con Bashir, è stato organizzato un incontro con il regista israeliano, moderato da Alessandro Uccelli. Folman ha raccontato al pubblico l’esperienza produttiva di Valzer con Bashir e il suo personale rapporto con il cinema d’animazione. L’incontro parte proprio dalla particolare genesi dell’opera.
Prima di Vals Im Bashir, avevo già realizzato due lungometraggi in live action e una serie televisiva divisa in otto puntate su delle storie d’amore. Per documentarmi, avevo anche intervistato una serie di accademici sul tema dell’amore, ma quando sono arrivato alla fase di montaggio delle loro testimonianze, ho incontrato diverse difficoltà. Ricordo in particolare che c’era la storia di una ragazza israeliana e di un ragazzo palestinese molto più giovane di lei che si erano innamorati e volevano scappare insieme. Poco tempo prima della partenza, però, lei rimase ferita gravemente in seguito ad un attentato e il ragazzo decise di abbandonarla. Vi lascio immaginare la depressione che colpì questa povera donna. Era un racconto potente e chiesi ad uno neuropsicologo un’intervista dove spiegava scientificamente il quadro psichiatrico della donna. Ma le sue asserzioni erano troppo pesanti, troppo complesse da integrare nel flusso narrativo. Nel frattempo, nel 2001 uscì Waking Life di Richard Linklater. Non lo trovai particolarmente bello, ma mi colpì per il suo modo di creare un mix tra live action e animazione. Così decisi di realizzare delle clip animate di circa otto minuti per ciascuna puntata di una serie, e quella scelta stilistica si rivelò un successo. Fu in quel momento che mi resi conto del potenziale dell’animazione e iniziai a utilizzarla nei miei lavori.
Folman racconta anche dei suoi trascorsi nell’esercito israeliano, un’esperienza che ha segnato indelebilmente tante persone e che è il punto di partenza del suo documentario animato.
Per quanto riguarda il mio film, l’occasione arrivò in modo del tutto inaspettato. Ero riservista per l’esercito israeliano ma volevo concludere in tutti i modi quell’esperienza. Così, chiesi di dimostrare ad uno psichiatra dell’esercito la mia inabilità al servizio. Durante quei quindici incontri parlai per la prima volta della mia esperienza da soldato in Libano e, alla fine, lo psichiatra mi riformò chiedendomi di smetterla di scavare nel mio passato. Ma proprio quel suggerimento diventò l’origine per il mio film.
Di fatto, per Folman l’animazione viene utilizzata per rappresentare elementi oscuri della memoria impossibili da concepire attraverso una messa in scena. L’animazione diventa, infatti, una pratica attiva per indagare nelle pieghe della memoria delle persone intervistate. Una forma alternativa per raccontare la realtà invisibile delle nostre coscienze.
All’inizio avevo solo una pseudo-locandina con il disegno di un aereo che atterrava a Beirut. La mostrai a chi di dovere per promuovere l’idea che avevo del film. Era il 2006. Poi feci un annuncio pubblico chiedendo ai riservisti di raccontare la loro esperienza da militari in Libano. Ingaggiai una ragazza che non sapeva niente sulla guerra in libano per farle condurre le interviste. Arrivarono decine di storie incredibili, ne sono rimaste fuori un sacco. Ad un certo punto, per non perdermi in mezzo a tutti quei racconti, ho deciso di fermarmi e di rifocalizzarmi sulla storia che volevo raccontare. Mi trattenni dallo scrivere durante tutte le ricerche. Poi, finite la fase delle interviste, mi chiusi in una casa in Galilea e in quattro giorni uscì sceneggiatura definitiva.
Folman ne approfitta anche per raccontare qualche vicissitudine legata al ridotto budget del film e ad un’importante collaborazione per realizzare la colonna sonora del suo film.
Per realizzare il film, abbiamo lavorato principalmente in studio, anche per le scene in live action. Il processo fu molto strutturato: tutto è partito da un video cut, che ha dato origine allo storyboard, trasformato poi in un videoboard animato. Nel frattempo, un’altra squadra si occupava del design del film. Il budget era ridicolo: un milione di dollari, e tutto il lavoro fu svolto da meno di dieci persone. Ricordo che, a Cannes, il mio agente mi chiese di dire che era costato 2,5 milioni per non far pensare che avessimo sfruttato chi aveva lavorato al film. Per la colonna sonora ho avuto la fortuna di collaborare con Max Richter, che oggi è diventato uno dei più importanti compositori in circolazione. All’epoca, conoscevo solo due suoi album, che avevo nella mia libreria. Li ascoltavo continuamente, mi erano entrati in testa. Così, senza pensarci troppo, gli scrissi un’e-mail chiedendogli di partecipare alla realizzazione del mio film, allegando lo script. Lui mi rispose con un semplice: “Perché no?” Ci incontrammo a Edimburgo e, in cinque giorni, lavorammo alla musica. Dopo una settimana, avevamo già la colonna sonora completa. Per quel film, tutto sembrò incastrarsi alla perfezione.
Non manca anche una riflessione sull’impatto e sull’eco mediatica che ebbe il film nel 2008. Ad oggi un film come Valzer con Bashir sarebbe possibile da realizzare e da produrre in Israele? D’altronde il tema della censura del governo israeliano è un tema toccato da altri importanti cineasti israeliani.
Per completare il film ci sono voluti quattro anni. All’epoca, in Israele, fu accolto abbastanza bene ma vivevamo in un mondo completamente diverso… Il Ministero degli Esteri lo portava in giro per il mondo nei vari festival e, in molte occasioni, lo presentava direttamente al posto nostro. In realtà, era un’operazione politica: quel film dava l’idea che Israele fosse un paese in cui gli artisti potevano esprimersi liberamente. Era una forma di propaganda anche quella. In più io non sono mai stato considerato dal governo Israeliano come un traditore al 100%, forse perché ho servito nell’esercito. Ma oggi un film come il mio sarebbe impensabile. Sono passati quindici anni e la situazione è completamente cambiata. Un esempio lampante lo vediamo con No Other Land, un progetto realizzato da registi israeliani e palestinesi: in Israele è stato completamente bandito, per fortuna i registi hanno reso possibile lo streaming per tutti.
Infine, c’è spazio anche per un piccolo excursus su un altro film importante e discusso di Folman: The Congress, adattamento del romanzo di Stanisław Lem Il congresso di futurologia.
Per The Congress, ho ottenuto i diritti del libro e ho iniziato a sviluppare il progetto. Quel film, in un certo senso, ha anticipato il dibattito sull’intelligenza artificiale. Paul Schrader una volta si fece fotografare accanto al poster del film dicendo che avevo previsto tutto. All’inizio nessuno sembrava capire il senso del film, tranne me. L’unica certezza che avevo era legata allo stile da adottare: nella parte in live action abbiamo seguito un’impostazione rigorosissima, mentre l’animazione era completamente libera e sperimentale. Volevo che tutto esplodesse nella parte animata. Era un’occasione unica per fare esattamente ciò che volevo. Guardo ai miei film come se fossero i miei figli. Valzer con Bashir è il figlio modello, quello di cui tutti vanno fieri. The Congress, invece, è il figlio problematico, pieno di difetti, ma che sento più vicino a me. Forse proprio perché mi somiglia di più.