BFM43- Tracce indelebili. Memoria e identità in “Visti da vicino”

Quattro documentari, un percorso di visioni sospese tra realtà e finzione che esplorano memoria e perdita: dall’estinzione alla guerra, dalla malattia all’esilio. Al 43esimo Bergamo Film Meeting


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Anche quest’anno al Bergamo Film Meeting diventa protagonista la sezione “Visti da Vicino”. Quattordici produzioni indipendenti provenienti dal panorama internazionale, tutte inedite in Italia. Film documentari nei quali lo sguardo curioso e attento del regista si addentra senza remore nel vivo della realtà. All’interno della vasta proposta cinematografica abbiamo selezionato quattro lungometraggi, un percorso di visioni sospese tra realtà e finzione che esplorano memoria e perdita: dall’estinzione alla guerra, dalla malattia all’esilio.

Quattro opere che, c’è da sottolinearlo, non possono essere definite come puri documentari. Tutte e quattro, infatti, giocano con il mezzo cinematografico, lasciando lo spettatore in una sospensione continua tra realtà e finzione, con i protagonisti, persone vere che vivono la loro vita, che diventano attori di una narrazione in bilico costante tra testimonianza e messa in scena. Un approccio ibrido che permette allo spettatore di avvicinarsi ancora di più, di poter “vedere ancora più da vicino” i frammenti di vita osservati. La finzione, in questo senso, sembrerebbe amplificare la verità, fornirci quasi il controcampo interiore dei protagonisti inquadrati.

È il caso di Play dead!, una dialogo interiore del regista Matthew Lancit sulla paura della malattia e del declino fisico. Attraverso effetti visivi e la messa in scena di sé stesso come zombie e vampiro, Lancit trasforma il proprio corpo in un terreno di sperimentazione per esorcizzare la paura del diabete, malattia che ha già colpito alcuni membri della propria famiglia. Col passare dei minuti l’opera di Lancit diventa un documentario sulla psiche del regista, sull’elaborazione del lutto per la perdita del padre ma anche sull’ossessione per la sua malattia e le possibili conseguenze che potrebbe avere sul proprio corpo.  E così, l’ironia diventa un’arma per affrontare l’angoscia. Lancit imposta il suo film raccontando anche il bellissimo rapporto con le sue figlie, che partecipano al gioco di esorcizzazione della morte da parte del padre con affetto e leggerezza.

In Choreographies Towards Loss, della regista Norvegese Irene Margrethe Kaltenborn, il concetto di morte, invece, si estende oltre i confini dell’umano e diventa una messa da requiem per una specie animale estinta, l’Alca Impenne. Il film è esperienza sensoriale attraverso i luoghi, le persone e i documenti che certificano un legame con questo uccello scomparso a metà Ottocento, sfociando in una sorta di funerale audiovisivo. Ma Kaltenborn cerca di andare oltre la semplice riflessione sul concetto di perdita. Il sacrificio dell’Alca Impenne, infatti, è stato interamente provocato dall’uomo, dalle sue pratiche barbare capaci di trasformare in morte tutto ciò che è vita. In questo senso, la portata concettuale del film cerca di spingersi oltre, denunciando l’incapacità dell’essere umano di imparare dai propri errori, continuando a distruggere ecosistemi e a sterminare specie viventi. La memoria diventa qui uno strumento per interrogarsi sulle nostre responsabilità nel presente nel quale, ogni ora, scompaiono circa sei specie animali diverse.

Le altre due opere selezionate, Afterwar e The jacket, si concentrano su una diversa forma di sopravvivenza, legata in modo indissolubile alle guerre del passato e del presente. La sopravvivenza, in questi due casi, assume un significato più profondo, legandosi alla memoria di due popoli vittime di soprusi, deportazioni e genocidi, costretti a vivere in condizioni di estrema precarietà, sospesi nel limbo infinito tra i traumi indelebili del passato e le inquiete incertezze sul futuro.

Afterwar, della regista Birgitte Stærmose, è un’opera che viaggia lungo quindici anni nelle vite di alcuni bambini di Pristina, in Kosovo. Questi bambini sono costretti a sopravvivere vendendo noccioline e sigarette per strada. Crescono davanti ai nostri occhi, ci guardano e ci parlano, sussurrandoci le loro sofferenze e la loro rabbia per un’ingiustizia così grande. E mentre questi bambini diventano prima adolescenti e poi uomini e donne, tutto intorno a loro sembra rimanere identico e immutato, riducendo i protagonisti a prigionieri incastrati in un eterno limbo fatto di rabbia e paura, il limbo di chi, pur essendo sopravvissuto alla guerra, non può mai davvero lasciarsela alle spalle.

The Jacket di Mathijs Poppe ci mostra, infine, per qualche giorno la vita di Jamal Hindawi, un artista palestinese in esilio nel campo profughi di Shatila, in Libano. Jamal e la sua comunità mettono in scena, attraverso un’opera di puro teatro politico, il loro eterno legame con la Palestina e la loro condizione di rifugiati all’interno di un paese che non li riconosce. Lo spettacolo ruota intorno ad una giacca piena di toppe colorate, un simbolo identitario che vuole rappresentare loro terra d’origine. Ecco che la scomparsa prima e il tentativo poi di ricerca di questo semplice oggetto di scena ci catapulta in un viaggio che racconta con grande sensibilità le conseguenze delle crisi politiche ed economiche che hanno sconvolto il Medioriente. Poppe, adottando uno stile a metà tra realtà e finzione, cerca di restituirci prima di tutto l’autenticità di una storia di resilienza del popolo palestinese che non può e vuole dimenticare la propria identità, anche se costretto a dover vivere lontano dalla propria terra d’origine.


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