BIF&ST 2012 – Lezione di cinema con Abbas Kiarostami

Una sala gremita di pubblico, giovani e un po' meno, tutti con pari entusiasmo, attende l'arrivo di Abbas Kiarostami, dopo la visione di Copia conforme, l'ultima sua opera con Juliette Binoche. Il regista iraniano è al Bif&st per ritirare il Premio Fellini 8½ per l'eccellenza artistica nel suo campo, quest'anno assegnato anche a John Madden, il produttore Richard Borg e Max Von Sydow, tra gli altri. A condurre questa lezione di cinema, Enrico Magrelli, critico tra gli organizzatori di questa terza edizione del festival

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Abbas Kiarostami Per iniziare vorrei ricordare una frase pronunciata da un maestro del cinema come Jean Luc Godard. Godard ha, infatti, detto: «Il cinema inizia con Griffith e finisce con Kiarostami».

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A dire la verità, la frase di Godard non è proprio questa. Poi si è corretto. Quello che voleva dire è: «Kiarostami ha fatto solo un bel film, La vita continua». Il mio pensiero è che il cinema è ancora giovane rispetto alle altre arti, ha solo cento anni e non può già morire.

Si può dire che nelle opere di Kiarostami ci sia un cambiamento nel modo di concepire il cinema, ma comunque, in ognuna di esse, in particolare penso a Shirin, lo spettatore viaggia con il film.
 
Dryer diceva che il cinema è una riunione collettiva di psicanalisi, tutti vi prendono parte, tutti insieme, ma ognuno guarda il film con il proprio sguardo, per cui, Copia conforme, per esempio, ha un significato diverso per tutti. Ognuno dopo il finale, che ho lasciato volutamente aperto, costruisce il resto del film a modo proprio. Nessuno guarda il film alla stessa maniera. Durante la visione del film, lo spettatore compie un viaggio interiore.

Tornando a Shirin, il film si può considerare sia dal punto di vista emozionale che teorico per quanto riguarda lo sguardo.
 
I nostri film sono come i nostri figli. Alcuni figli, come alcuni figli, diventano un po’ più in vista. Alcuni di questi figli potrebbero essere timidi, per cui meno in vista, ma quando qualcuno nota questo figlio, per noi è molto importante. Dopo Shirin ho realizzato altri due film, ma credo che Shirin sia molto eccezionale. Adesso vi racconto perché. Di solito, ogni cineasta dice che il suo ultimo film è il migliore, ma io non avrò più la possibilità di realizzare un film come Shirin perché lo spettatore comunica maggior sentimento ed emozione verso questo film. Quando questo film è proiettato a Teheran, solitamente più della metà degli spettatori escono, ma ognuno di loro esce dal cinema per un motivo suo. Coloro che restano a vedere il film fino alla fine hanno le loro motivazioni. Il fascino di questo film è che ogni spettatore vede una storia differente, confermando la frase di Dryer. Per questo dico che il cinema deve ancora continuare a crescere. Dobbiamo ringraziare tutti i programmi televisivi superficiali perché ci fanno capire che differenza c’è tra il cinema e la TV. Secondo me, inizia un film quando lo spettatore è stanco di sentire un racconto. Non andiamo a vedere un film per ascoltare una storia. Il danno maggiore che ha sofferto il cinema è stato proprio quello del racconto. E ancora dobbiamo ringraziare la TV, che con tutti i serial fa stancare molto più velocemente ognuno di noi, rendendo l’andare al cinema un bisogno. E lì inizia il cinema. Comunque l’arte è astratta. Purtroppo, spettatore e produttore hanno tolto questo aspetto al cinema. Anche il regista.

Abbas KiarostamiUna cosa che mi sono sempre chiesto è: che film guardano le donne in Shirin?

In realtà, non vedono alcun film. Queste 100 donne sono state messe di fronte a una macchina da presa fissa, con un foglio A4 bianco in mano, sedute lì per 6 minuti. Alla fine avevo più di 600 minuti di girato da cui partire. A loro ho chiesto di ripercorrere in questo tempo un'emozione vissuta in passato. Alcune continuavano comunque a recitare, si vedeva che l'emozione non era vera. Altre, invece, erano sprofondate nel ricordo e non recitavano, era tutto vero. Poi, ho trovato una storia di un poeta classico persiano che era molto simile a Romeo e Giulietta e da questa ho creato un film e nel montaggio ho inserito i vari volti filmati, così che le reazioni colte fossero compatibili con ciò che stava accadendo. Si capiva che ognuna di esse stava pensando a una storia d'amore finita, delusa, anche se secondo me, non esistono storie d'amore deludenti perché sono come la vita: nascono, si sviluppano e, a un certo punto, muoiono. È normale. Se guardiamo alle reazioni, riusciamo a percorrere la storia d'amore dal loro volto. Amo questo film perché, in realtà, non ho fatto la regia. I registi di solito intervengono, modificano la natura delle persone, ma io non l'ho fatto.

Sì, però il regista è anche colui che ha creatività e idee originali. A tal proposito, come è arrivato al cinema?
 
È una domanda difficile che richiede una risposta difficile perché bisogna rispondere in maniera giusta. Mi scuso se mi dilungherò. Ho fatto l'Accademia di Belle Arti, amavo la pittura e, soprattutto, Van Gogh quando avevo 17 anni. Van Gogh era un povero come me, ma è arrivato a essere quello che è, quindi anche io avrei potuto diventare importante. Dovevo laurearmi in 4 anni, ma dopo 13 ancora non avevo una laurea, non ero un pittore, le mie mani erano deboli di fronte alla tela. Perciò, di solito, lasciavo la tela e andavo in biblioteca a leggere e, mentre leggevo, la mia mente andava avanti, viaggiava. Avevo molte idee ricche, ma le mie mani non sapevano disegnarle, erano ferme. Allora, sono entrato nel campo della pubblicità artistica. Tramite questo lavoro ho conosciuto il cinema e per 20 anni ho fatto film per e sui bambini. Apparentemente è così che sono diventato regista, ma le radici sono molto più lontane. Mia madre racconta sempre che Abbas era il più curioso dei figli e ricorda che a 4-5 anni ero curioso di sapere cosa succedeva tra le persone, tra uomo e donna. Non nel modo in cui potreste pensare, ma cosa erano davvero le relazioni. Il cinema si può imparare a farlo, ma non credo che tutti i cineasti bravi sono quelli che fanno cinema. I veri cineasti si possono trovare tra chi fa altri lavori. Quindi, per fortuna, ho fatto questo percorso. Serve la curiosità che porta a guardare. Il cineasta è cineasta per 24 ore, anche il suo sonno è diverso, i suoi problemi sono differenti. A volte, nei suoi film comunica il malessere di chi gli sta attorno poiché sente più intensamente.

Ha detto tante volte di avere un rapporto speciale con il cinema italiano, in Neorealismo e Rossellini in particolare.

A 7-8 anni avevo un quaderno di francobolli e uno con i fotogrammi, solo che io non sapevo che erano fotogrammi e a cosa servissero. Tagliavamo frame e li incollavamo come fossero francobolli. Non c'era la TV a quel tempo, sto parlando di 60 anni fa. Credevo che l'unica differenza era che il frame si guardava controluce finché un mio compagno di classe portò a scuola un rullo in cui s'inserivano i frame e si muovevano. Abbiamo scoperto Lumière a 10 anni. Ma ancora non sapevo che i frame potevano essere consequenziali, non conoscevamo il cinema. A quel tempo, vivevamo a 20 km da Teheran e ci dissero che in città avevano aperto un cinema. A 11 anni ci andai per la prima volta con la mia sorellina e per la prima volta abbiamo visto un film. La prima immagine che ricordo è il leone della MGM, che mi spaventò pure per il suono. Non ricordo il titolo del film, ma era un film americano, a colori, con un attore con il nasone, che era Danny Kaye. A metà film mi sono addormentato. Per molti anni abbiamo visto film americani in lingua originale, ma il primo che lasciò in me un segno fu un film con Totò, che era diverso da tutto ciò che avevo visto fino ad allora. E poi Totò somigliava a un mio vicino di casa. Allora, o meglio poi, ho capito che esistono due tipi di cinema: un cinema realistico e uno molto emozionante, ma lontano dalla realtà, seppure molto piacevole. Mi sono avvicinato soprattutto al cinema reale. A 20 anni vidi La dolce vita, poi ho visto La strada e non volevo vedere più film americani. mi ha colpito enormemente e fu il primo che vidi al cinema due volte. Ci portai pure la mia ragazza, che però non era interessata al film, voleva fare altro, mi chiedeva di stringerle la mano mentre io volevo vedere il film. All'uscita lei è andata da una parte, io dall'altra e non si siamo più rivisti. Ho realizzato che c'è qualcosa sullo schermo da capire individualmente, che non si può condividere. Sempre più spesso vedo la gente al cinema che controlla il cellulare durante il film, ma come si fa a guardare il film con il cellulare in mano? Anche un film brutto offre sempre la possibilità di analizzare noi stessi. Siamo solo noi e lo schermo e non siamo qua per divertirci.

Il suono ha sempre un'importanza fondamentale nel cinema di Kiarostami.

Il mio criterio ispiratore è la vita. Ho imparato tutto da essa. Quando siamo a letto, distesi, con gli occhi chiusi, continuiamo a rimanere legati alla vita attraverso le voci che sentiamo provenire dalla finestra. Noi sentiamo l'esigenza di alzarci e andare a vedere cosa sta accadendo per via di quelle voci. Il cinema non è finito, anche se si è a occhi chiusi, l'immagine continua attraverso il suono. A volte, nei miei film, chiudo l'immagine in nero e guido lo spettatore con il suono che guida l'immaginazione. Noi creiamo così l'immagine. Lo spettatore è il vero cineasta. La mente continua a lavorare, si costruisce un racconto da ciò che si è sentito. Si va alla finestra per il lavoro che il suono fa sulla mente. Il suono offre la possibilità d'immaginare.

Copia conformePrima ha detto che ha fatto per anni film per e con bambini. In che modo lavora con loro?
 
È una domanda troppo generica, quindi risponderò in maniera generica. Il modo è lo stesso anche per gli adulti. Per trovare il bambino o l'attore in genere ci metto tantissimo tempo. Quando scrivo la sceneggiatura, dovrei aver in mente un personaggio da poter immaginare. Non si fa cinema con la letteratura. Bisogna vedere la persona, cosa dice, la fisicità, come si siede, come cammina. La parte principale è lo studio per trovare la persona giusta e non volerla più cambiare perché poi diventa difficile. Una volta trovato l'attore, bisogna lasciare da parte le idee e lavorare su di lui per la sceneggiatura. Se sono fortunato, l'attore corrisponde al 70% a cosa avevo immaginato, al 30% cambio io. Gli altri non sono a tua disposizione. Per il mio ultimo film in Giappone ho cercato per un anno un attore di 80 anni e una ragazza di 20. Ho visto più di 200 persone e gli ho detto il minimo indispensabile perché quelli che avevo scelto erano i migliori. Lasciavo che loro inserissero caratteristiche della loro personalità nel personaggio. Lo stesso faccia per i non professionisti, con cui spesso lavoro, pure in Copia conforme, in cui lui non era un attore e non conosceva neanche Juliette.

Un frammento dell'incontro:

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