#Bifest2020 – Semina il vento e la “terza via” di Nica. Intervista a Danilo Caputo

La nostra intervista a Danilo Caputo per il suo Semina il vento, in anteprima al Bifest, che attraverso la sua protagonista auspica una “terza via” per tutti i pugliesi che non si vogliono arrendere

--------------------------------------------------------------
CORSO COMUNICAZIONE DIGITALE PER IL CINEMA DALL'11 APRILE

--------------------------------------------------------------

Si è aperto con l’anteprima di Semina il vento di Danilo Caputo l’undicesima edizione del Bif&st (Bari International Film Festival) di quest’anno, che si chiuderà il 30 agosto. Presentato in una première internazionale all’ultima Berlinale, nella sezione Orizzonti, il film del regista tarantino, che approderà in sala il 3 settembre, racconta la storia di Nica, giovane studentessa di agronomia, che dopo essere tornata a casa, nel Salento, si ritrova a combattere con una “terra avvelenata”, tanto  nelle campagne infestate dai parassiti naturali, quanto e soprattutto nella corruzione dei suoi abitanti, a partire dalla sua famiglia.
Per l’occasione abbiamo incontrato il suo autore, sviscerando la sua storia personale e ciò che lo lega, nel bene e nel male, ai suoi luoghi d’origine; passando per i fatti di cronaca che lo hanno ispirato, dalla Xyllela che affligge le campagne salentine all’Ex-Ilva di Taranto; fino alle cicliche dinamiche che colpiscono la generazione più giovane in perenne conflitto con la precedente, tra mito della partenza ed una più romantica, quanto complicata da assecondare, “saudade pugliese”. A tal proposito, proprio nel personaggio di Nica, ci svela, sono racchiuse tutte le sue speranze, da tarantino che per lungo tempo ha vissuto a Parigi (ma che tornava ad “ogni occasione”), per una “terza via”, ovvero tra l’andarsene e abbandonare definitivamente la propria terra oppure restare e di conseguenza arrendersi al malcostume sociale.

--------------------------------------------------------------
#SENTIERISELVAGGI21ST N.17: Cover Story THE BEAR

--------------------------------------------------------------

Dopo La mezza stagione (film d’esordio del 2014, NDR), con Semina il vento torni a parlare del Sud Italia. Da dove nasce questa esigenza? Qual è stato il processo creativo, in questi sei anni di intervallo dal film precedente, e quali i fatti di cronaca che ti hanno ispirato? 

Visto che hai citato La mezza stagione, il legame c’è. Perché in realtà quello era un film che voleva fare un po’ il ritratto di un’atmosfera. Nel senso, io vivo fuori però poi spesso torno a casa e ogni volta sento, respiro proprio un’inerzia, una rassegnazione. La mezza stagione era il tentativo di mettere in immagini e suoni quell’atmosfera lì: tre storie di persone che provano a perseguire la loro vocazione e poi sbattono contro il muro e si arrendono. Quando ho finito il film, ho pensato che quella fosse una descrizione veritiera che però mi metteva tristezza, forse perché troppo vera. E quindi mi è venuta voglia di partire comunque da quella realtà lì, però per immaginare un personaggio che avesse la forza di rompere quel muro, di scontrarsi contro quella rassegnazione e provare a cambiare le cose. Ed è da lì che è nato il personaggio di Nica.
Poi tutto il contesto del film si è nutrito di altre cose. Per esempio nel 2013 c’è stata una cosa molto importante per me, perché c’è stato il referendum consultivo per chiedere ai tarantini se credevano gli altiforni dovessero essere chiusi o meno. E quindi per me, da tarantino, che comunque sono cresciuto con una sensibilità molto attenta a questa ferita aperta, era un momento importantissimo. E invece poi solo un tarantino su cinque è andato a votare. Da questa delusione mi è nata una domanda: ma come mai anche in un quartiere come Tamburi (circoscrizione di Taranto, NDR), dove la gente muore davvero quotidianamente per problemi legati alla fabbrica, non sono andati a votare? E quindi ho capito che quella rassegnazione di cui parlavo durante La mezza stagione è così forte che in qualche modo ci ha portati ad abituarci a questa vita e a non riuscire ad immaginare un’alternativa. Per cui la gente è convinta di non poter fare a meno dell’Ilva. Anche da lì è nata l’idea di un personaggio che partendo dal passato, dal mondo della nonna, unendo quella saggezza un po’ ancestrale con la scienza, con l’agronomia, vuole creare un futuro diverso per quella terra.

Questa coesistenza nel personaggio di Nica tra “magia” e scienza, tra rurale e moderno è un tema ricorrente per tutto il film. Nica trova e porta con sé una gazza, che l’accompagna per l’intera pellicola, riconosciuta da sua madre come lo spirito di sua nonna. A partire da questo attaccamento di Nica verso la campagna e, di pari passo, da questa sua fascinazione nei confronti dei riti ancestrali professati dalla nonna, quanto sono importanti per te le tradizioni, i lasciti delle generazioni passate? E qual è il tuo rapporto col sacro?

Allora, per quanto riguarda la tradizione, secondo me è successo che negli anni del boom, quel mondo contadino che è stato lì per secoli, tutta quella civiltà, è stato improvvisamente abbandonato. Nel senso che tutte quelle persone si sono convinte, perché così gli è stato insegnato dalla televisione, dalla scuola, che quello era un mondo di arretratezza, di credenze medievali che andava superato. Quindi in realtà, senza colpe però è un dato di fatto, la gente ha voltato le spalle a quel mondo ed ha abbracciato tutto ciò che era nuovo, partendo dai costumi portati dalla televisione, dall’industrializzazione. E invece credo che in quella tradizione ci sia tantissima ricchezza. Quindi il personaggio di Nica per me non è un personaggio che vuole tornare alla tradizione, ma che vuole riscoprire la ricchezza che c’era. Se ci pensiamo ci sono dei paesi come Il Giappone in cui la tradizione e la tecnologia più avanzata in qualche modo vanno a braccetto. Mentre noi siamo abituati a considerare la modernità come a qualcosa che deve scalzare le tradizione, loro hanno creato una sinergia tra tradizione e modernità. Per cui la scienza rilegge, reinterpreta la tradizione e in qualche modo la porta avanti in maniera innovativa. Mi piaceva un po’ quest’idea, immaginare una Nica un po’ “giapponese”, che riesce a tenere insieme queste due anime.
Invece, per quel che riguarda il mio rapporto con la tradizione, non ho una biografia simile a quella di Nica. Non ho una nonna che mi ha insegnato chissà cosa, non ho una vita di campagna, non è quello il mio mondo. Però proprio perché sono nato in una famiglia che non mi ha tramandato queste cose, avevo fame di scoprirle. Quindi da quando mi sono reso conto che c’erano delle cose che non conoscevo, ho cominciato a chiedere a tutti gli zii, le zie più anziani, per provare a scoprire come vivevano loro sessant’anni fa.
E il mio rapporto col sacro, diciamo che c’è nel film. Per me il sacro della processione, della questua per salvare gli ulivi, è un mondo con una tradizione che è ancora diversa da quella della nonna di Nica. Ho sempre immaginato la nonna di Nica come una un po’ più vicina ad un mondo più pagano, legato proprio ai valori della terra, che in qualche modo è stato antagonizzato dalla Chiesa, che ha voluto estirpare tutte le tradizioni non religiose oppure se ne è appropriata.

Dualismo tra questi due mondi notato dalla stessa Nica, che ironizza sull’ipocrisia di sua madre, per il suo ritenersi “persona normale” al contrario della defunta nonna…

Esatto. Oppure c’è una cosa come il falò che è chiaramente un rito ancestrale, perché si trova in tutta Europa come rito di primavera, che però ha subito una appropriazione da parte della Chiesa, per cui è diventata la “festa di San Giuseppe”. E mantiene un po’ queste due anime, convivono. Quindi mi interessava, anche lì, seguire un po’ questi contrasti, queste tradizioni che spesso convivono da noi, in Puglia.

Visto che citiamo la famiglia, nel film si consumano diversi scontri generazionali, tra quello già menzionato tra la madre di Nica e la nonna, poi tra Nica e i suoi genitori, come fosse un un ciclo senza fine. Nel padre di Nica c’è la sottovalutazione nei confronti dei più giovani, nella madre, invece, il volerli quasi spingere via. Quali sono le tue considerazioni personali a riguardo e, in estensione, come la pensi sulle attuali politiche giovanili della regione?

Hai usato la parola “ciclo”, secondo me, sì, effettivamente il conflitto tra le generazioni è qualcosa che c’è da sempre. Quindi dai miti greci, è stato un conflitto ciclico. Però credo che adesso sia un ciclo che si è intoppato, perché siccome viviamo adesso in un mondo in cui i figli non riescono a superare i genitori in termini di reddito, per esempio, i figli saranno più poveri dei genitori, c’è una decrescita demografica… è successo che il ciclo si è bloccato perché il potere non passa più nelle mani dei giovani, si è fermato ad una certa generazione. E quindi questo disequilibrio fa sì che poi le idee nuove, le idee innovative, le idee della generazione di Nica, la loro sensibilità, non riesca ad imporsi. Volevo riflettere nel loro rapporto quello che osservo un po’ nella società.
Dal punto di vista della Puglia, trovo che adesso sia un posto nel quale si possa rimanere più facilmente rispetto alla Puglia di vent’anni fa. Devo dire che ci sono più opportunità, ci sono più cose che succedono, che si tratti di turismo piuttosto che di fare cinema. Però è chiaro che ci sono ancora tante zone che non sono state ancora raggiunte da questo vento di cambiamento e quindi ci sono ancora tantissimi pugliesi sparsi nel mondo, ovunque, a partire da me. Siamo ancora in tanti a sentire il bisogno di andare fuori per seguire la nostra strada.

Ecco, a proposito di questo, uno dei rapporti chiave del film è quello tra Nica e Paola, la sua “amica di giù”, in cui si riflette la disillusione di chi torna, da una parte, e il mito della partenza dall’altra. Quanto c’è di personale, hai avvertito anche tu questa sorta di “saudade pugliese” dopo tanto tempo passato lontano?

È proprio così, perché in realtà nel rapporto di Nica e Paola, nella dinamica di Nica che torna e Paola che parte, sono confluiti tutti i dubbi di una persona che quando scriveva, viveva a Parigi, però tornava in provincia di Taranto ogni volta che ce n’era l’occasione. Perché, sì è vero, io sono partito la prima volta quando avevo 17 anni, perché avevo proprio voglia di andare via, ho finito le scuole superiori all’estero, ero fissato e volevo partire. Però ci sono alcune persone che partono e stanno bene, non sentono alcun bisogno di tornare, io invece sono uno di quelli che parte, rimane un po’ fuori e si dice “però forse, se tornassi ora…”. E poi magari per un po’ va più o meno bene, dopo un po’ di tempo vedo però che non sta andando da nessuna parte e sento il bisogno di ripartire. La mia vita è stata così.
Quindi sì il personaggio di Paola mi ricorda un po’ le persone che guardano me che sono partito con invidia. E al tempo stesso, però, sono anche io Nica, perché chi sta fuori un po’ invidia anche chi è rimasto, chi è riuscito a costruirsi una vita in qualche modo senza dover partire. Perché in fondo chi parte spesso non ha necessariamente voglia di partire, parte soltanto per potersi realizzare. E quindi, sono stato un po’ sia Paola che Nica, quindi sia la persona che voleva partire, sia la persona che desiderava tornare e poter ricostruire qualcosa.

Restando sulla Puglia, prima abbiamo parlato del suo risveglio culturale, specie in campo cinematografico, dove ha giocato un ruolo determinante l’operato dell’Apulia Film Commision. Semina il vento, al contrario di molte produzioni ambientate nella regione negli ultimi anni, ne mostra i lati più oscuri. Uno dei primi assunti del film è proprio che le “persone sono avvelenate“, mostrandone quindi non solo la bellezza di quei luoghi, ma soprattutto le difficoltà dei suoi abitanti. Quanto è stata cruciale per te, allora, questa restituzione dell’autenticità, nel bene e nel male? 

Grazie mi fa piacere che tu dica queste cose, perché è stato proprio uno dei capisaldi, fin dall’inizio della scrittura. Perché vivendo fuori… all’epoca vivevo a Parigi, adesso non ci vivo più… vivendo a Parigi, incontravo una persona, dicevo “sono italiano”, “ah, italiano di dove?”, “vengo dalla Puglia”, e tutti dicevano “che bello, i trulli, Castel del Monte…”. Certo, è un orgoglio venire da una regione che ha tante cose così belle, però in qualche modo ti fa un po’ rabbia, perché non ti senti riconosciuto. È come se la mia esperienza fosse stata negata. La mia esperienza è un’altra, è quella di un piccolo paese, bruttino, a dieci chilometri dal siderurgico più grande d’Europa e mi andava di raccontare quell’esperienza lì. Senza né andare troppo in una direzione apocalittica, di posto in cui vivere è impossibile, né però di presentare una Puglia da cartolina.
Quello che ho provato a fare è stato piuttosto mostrare il brutto per quello che è, mostrare le cose che conosciamo già, questo mostro onnipresente all’orizzonte. Però anche andare a trovare le bellezze un po’ nascoste, come dici tu, un po’ oscure anche, questa natura selvatica che è lì a pochi chilometri dalla fabbrica. Andare a cercare delle cose che sono belle e che credo molti tarantini non riconosceranno, perché noi stessi siamo abituati a pensare al nostro territorio come un territorio brutto. E magari lo vediamo attraverso i filtri dell’immagine che ci viene servita da fuori. Volevo dire: “sì, è un territorio in cui ci sono tante cose brutte, però è anche un territorio dove c’è tanto potenziale”. E allora Nica crede in una soluzione possibile, crede in una terza via, che non sia la dicotomia tra morire di fame e morire di tumore. Col film voglio suggerire che c’è un’alternativa, perché guardate che posti abbiamo, guardate quanta natura c’è ancora, quanta vita che c’è ancora, anche a pochi chilometri da quella fabbrica lì.

Una delle inquadrature più belle e significative del film è proprio quella del campo lungo col maneggio in basso e i fumi delle fabbriche sullo sfondo…

Tra l’altro per una coincidenza bellissima, nel maneggio c’è una puledra che beve il latte dalla mamma. Quindi, per pura coincidenza, si vede quest’immagine bellissima di vita a due chilometri dalle ciminiere.

Dieci anni fa sei stato alla Berlinale (per partecipare al workshop del Talent Campus della rassegna, NDR). Com’è stato adesso tornare per presentare il tuo film?

Io ricordo bene il Talent Campus del 2010 perché all’epoca vivevo a Roma. Vivendo a Roma mi sembrava che fare un film fosse impossibile, mi sembrava che tutto fosse complicato, che trovare un produttore fosse un grande scoglio, poi ci volevano tanti soldi, bisognava aspettare decenni prima di girarlo… Invece nel partecipare a quel Talent Campus, ho sentito un’energia diversa, un po’ più “moderna”, non so come altro chiamarla, di gente che comunque i film li faceva comunque. Che magari li faceva con ventimila euro, invece che con due milioni, di soluzioni nuove… c’era più ottimismo. E quell’esperienza lì mi ha dato l’energia e l’ottimismo per poi girare La mezza stagione in maniera auto-prodotta. Quella è stata un’auto-produzione, con una troupe di dieci persone, tutte sotto i trent’anni, ed è stata una bellissima esperienza. Quindi mi ha dato l’energia per fare quel film lì, con tutti i suoi difetti, che però mi ha permesso di fare Semina il vento. Quindi tornare a Berlino, per me, con questo film, è stato davvero bello.

--------------------------------------------------------------
CORSO ONLINE SCRIVERE E PRESENTARE UN DOCUMENTARIO, DAL 22 APRILE

--------------------------------------------------------------

    ISCRIVITI ALLA NEWSLETTER DI SENTIERI SELVAGGI

    Le news, le recensioni, i corsi di cinema, la riviste, i libri, gli eventi e tutte le nostre iniziative


    Array