Big China. Georges and the Vision Machines, di Dominic Gagnon

A partire dai video di un blogger francese in Cina, Gagnon lavora di selezione e montaggio, costruendo un thriller serratissimo sull’incubo dei meccanismi di sorveglianza. In concorso ai Popoli

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Georges è un blogger francese trapiantato in Cina. Nei suoi tantissimi video, oltre duemila nell’arco di un decennio, racconta la sua esperienza di straniero in un paese a dir poco complicato. E sono video fortemente condizionati dalla sua presenza bislacca, selfie in primo piano e monologhi schizzati, l’asta della videocamera anche in motorino, la parlata concitata. Un corpo comico in piena regola, “mi dicono che assomiglio a Mr. Bean”, ma che a poco a poco si abbandona a un febbrile, ossessivo delirio paranoide sulle strategie di controllo del regime cinese, impegnato a nascondere i buchi neri del sistema. È convinto di essere spiato, ma probabilmente è tutto nella sua testa. E intanto continua a parlare a sproposito. Finché, in effetti, la censura interviene. Dapprima ammonendo, poi agendo concretamente e facendogli terra bruciata intorno. Un isolamento progressivo, innanzitutto social. Perché, prima che sul piano materiale, tutto passa attraverso il riflesso dell’immagine pubblica e delle relazioni virtuali. Fino all’inevitabile resa dei conti.

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Ecco. In Big in China. Georges and the Vision Machines, Dominic Gagnon continua la sua riflessione sulla proliferazione delle immagini contemporanee, sul deposito orizzontale, potenzialmente infinito, della rete. In Of the North aveva lavorato sui video caricati su YouTube da filmmaker dilettanti Inuit. Qui si approccia allo sterminato materiale di Georges. Non aggiunge altro, nessuna ripresa, nessun commento. Eppure interviene a tracciare una linea di racconto coerente, una vera e propria progressione drammatica, con la selezione attenta delle immagini e con un ritmo di montaggio serratissimo. È questa la sua operazione cinematografica. Che trasforma la commedia di un personaggio grottescamente autodistruttivo in una specie di thriller psicologico, in un incubo claustrofobico di spionaggio digitale, sotto la minaccia onnipresente di macchine della visione che sono strumenti di controllo e di coercizione.

E, per questa strada, Big in China diventa un lucido discorso politico, non solo sui sistemi di sorveglianza, ma anche e soprattutto sull’effettiva proprietà delle immagini contemporanee e sulla loro utilizzazione. Georges entra a gamba tesa in un processo che non può dominare, produce contenuti che gli sfuggono di mano, gli si ritorcono contro, ma diventano anche il materiale grezzo su cui Gagnon monta la sua riflessione. Che, da un lato, mette in rilievo e in crisi le ragioni stesse della sorveglianza. E, dall’altro, pone una serie di questioni centrali sulla crescita esponenziale del concetto d’archivio, sulla disponibilità illimitata delle immagini e sulla possibilità di costruire un senso nel flusso indistinto delle cose. È qui che Big in China mostra tutta la sua urgenza. Che va al di là delle valutazioni sul film concluso o delle dichiarazioni d’impegno. Sta nella constatazione di come, oggi, la battaglia passa innanzitutto attraverso le immagini, riguarda le modalità della loro produzione, l’uso, il consumo, la percezione.

 

 

 

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