Billy, di Emilia Mazzacurati

Un coming of age in una provincia del Nord-Est glocal, l’esordio della figlia di Carlo Mazzacurati si perde in una eccessiva coralità e semplificazione. Film di chiusura del Bellaria Film Festival

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In una veloce sequenza d’apertura vediamo Billy giocare con suo padre. Questi gli dice di andarsi a nascondere, ma non andrà mai a cercarlo. Andrà, invece, alla ricerca di sé stesso, lasciando Billy da solo con sua madre. Dell’inerzia di quell’avvenimento traumatico vive ancora a 19 anni, nello stesso paesino del Nord-Est. Non sa bene cosa fare della sua vita, è innamorato di una ragazza che però non sembra dargli molte attenzioni e come se non bastasse lui e sua madre sono in seria difficoltà economica. Circondato dai bambini della zona, nascosti nella sua roulotte, sembra essere l’unica situazione nella quale si trova a suo agio.

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L’esordio alla regia di Emilia Mazzacurati, film di chiusura del quarantunesimo Bellaria Film Festival, parte dalle stesse coordinate del cinema di suo padre, il compianto Carlo. Non solo geografiche, ma anche di genere. Billy è un racconto di formazione che cerca sempre un sorriso amaro, quella risata sommessa che cela però una malinconia di fondo. Questa atmosfera dolceamara permea l’intera storia. La trama, a dispetto di un titolo che si ispira al nome del protagonista interpretato da Matteo Oscar Giuggioli, vuole essere in realtà corale. Il percorso di crescita sembra essere una necessità impellente anche e soprattutto per i personaggi adulti, che sembrano aver rinunciato alla ricerca di una via di fuga dall’infantilismo. La narrazione diffusa di questa provincia immaginaria è una diretta emanazione del mondo interiore della regista: non sembra affatto un caso che basta invertire due vocali del nome del paese, Imelia, per far comparire il suo nome. Il paesaggio intimo che Carlo Mazzacurati ha dipinto dagli anni ’80 fino al 2014 diventa con Billy un paesaggio interiore.

Il rinnovamento di questa precisa poetica passa anche dai canoni estetici con i quali viene raffigurata la provincia. Purtroppo, però, i riferimenti dai quali si parte (principalmente provenienti dalla serialità statunitense, come Stranger Things) sono estremamente ingombranti. La messa in scena non sembra per questo fare uno scatto verso il presente, quanto piuttosto resa digeribile per un algoritmo di selezione di una piattaforma streaming. Imelia è una cittadina glocal, che mescola quindi elementi di picaresco e di particolarità locale, allo stesso tempo semplificandoli e rimodellandoli affinché possano essere digeriti da un pubblico globale.

La via della semplificazione viene intrapresa anche per i personaggi, che si perdono in una coralità difficile da gestire in un esordio. La madre (Carla Signoris), il rocker Zippo (Alessandro Gassman), il pompiere (Giuseppe Battiston) non hanno una vera progressione psicologica, quanto piuttosto rovesciamenti dei loro atteggiamenti. Gli altri, come per esempio i nonni, si perdono in un limbo nel quale non sono né macchiette né personaggi percepiti come veri, in grado di subire un’evoluzione. Billy si ritrova, così, a seguire un solco già tracciato con fin troppa perizia, senza fare davvero affidamento sulla leggerezza che si sta imitando più che vivendo. Rischiano così di perdersi delle intuizioni interessanti, come quella di una storia nella quale i primi a soffrire di infantilismo sono proprio gli adulti (e senza strumenti per affrontare la situazione). Chissà che, in futuro, volteggiando a qualche centimetro dal terreno, non si arrivi a perdere di vista la traccia, pur rimanendo chiara nel cuore.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2.5
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