Billy Lynn – Un giorno da eroe, di Ang Lee
Torna l’abituale scaltrezza del regista nel lavorare, come in Vita di Pi, sulla superficie dell’immagine tecnologica per traslarla in discorso sulla percezione interiore. Un Lust, Caution da stadio
Un esercizio forse interessante sarebbe confrontare questo sforzo di Ang Lee a 120 fps con il quarto Bourne, al di là della questione comune del disturbo post-traumatico con conseguente fuoriuscita di memoria in flashback repentini – ma innanzitutto per via di quel commento sul film di Greengrass di cui già ho parlato, per cui non ci sarebbe oramai più troppa differenza stilistica tra le riprese nevrotiche hi-tech del regista di Green Zone, e l’armamentario hd di una qualunque puntata di Masterchef: abituare l’occhio alla scia delle immagini in 4k del film di Ang Lee è un’operazione che impiega almeno i primi dieci minuti di visione in cui la vicinanza è proprio quella con la familiarità degli show satellitari, anche perché il contesto narrativo è un dietro le quinte di evento da stadio (il senso dello zeitgeist che in Jason Bourne era fornito dall’incipit greco), a cui solitamente il montaggio tv dedica soluzioni visive vicine a quelle con cui Billy Lynn si apre (come, ancora, alle immagini dei broadcasting catodici delle cariche sulle folle elleniche alla base appunto dell’ultimo Bourne).
Da subito è insomma evidente l’abituale scaltrezza del regista nel lavorare, come nel precedente Vita di Pi, sulla superficie dell’immagine tecnologica per traslarla in un discorso sulla percezione interiore e su quanto modifichi la forma reale delle cose: il look da diretta sportiva è infatti perfetto per il racconto della performance di propaganda in cui rimangono invischiati il soldato Billy e il suo plotone, chiamati ad esibirsi come ignaro corpo di ballo delle Destiny’s Child per offrire alle masse americane la loro gloria di reduci eroici durante l’intervallo di un match di football.
Non tanto analogo, come si potrebbe pensare, alla riflessione portava avanti da Eastwood in Flags of our fathers, il film somiglia in realtà ad alcune sezioni di quello che rimane forse il titolo migliore di Ang Lee, quel Lust, Caution in cui l’autore affrontava apertamente il problema della messinscena ufficiale, dell’istituzione certificata. Seppure in realtà la satira ingolfata sulla divinizzazione del patriottismo statunitense, misto di senso del sacro da discount e pulsioni sessuali indotte (per cui non c’è troppa differenza tra Beyoncé e le cheerleader), potrebbe voler guardare alla struttura aristotelica potenziata di Birdman, come lascerebbero supporre le incursioni del personaggio della sorella Kristen Stewart e dei suoi insistenti sms con cui continua a farsi sentire sulla scena, anche a distanza.
E il film di Ang Lee procede per sprazzi di lucidità alternati a materiale non proprio felicissimo (come tutta la caratterizzazione del repubblicano coi verdoni di Steve Martin), riuscendo più di tutto a mantenere sempre costante una prepotente ed elettrica tensione omoerotica, più volte esplicitata dai cameratismi ossessivi dei personaggi, nei ragazzi della compagnia Bravo. Forse il fulcro più intimo e sentito dell’operazione risiede davvero in questa tenerezza nascosta, in questo sentimento accennato e continuamente negato: se i numerosi flashback in battaglia, dominati dalla figura del sergente Vin Diesel, non ci mostrano sempre un Ang Lee a proprio agio con le modalità del war movie, al contempo si rivelano istanti di una visione compassionevole della guerra che raramente ad Hollwood ha toccato territori di simile, spavaldamente fragile, pietas.
Titolo originale: Billy Lynn’s Long Halftime Walk
Regia: Ang Lee
Interpreti: Joe Alwyn, Kristen Stewart, Vin Diesel, Garrett Hedlund, Steve Martin, Chris Tucker, Beau Knapp
Distribuzione: Warner
Durata: 113′
Origine: USA, 2016