BIOGRAFILM 2012 – Jean-Marc Calvet e il suo doppio. All'inferno e ritorno


Approda al Biografilm 2012 Calvet, biografia tutt'altro che romanzata sulla straordinaria vita di Jean-Marc Calvet – prima ragazzo perduto, marchetta quindicenne, tossicomane, alcolista, poi legionario, guardia del corpo, criminale e bad lieutenant nello stesso tempo

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Jean-Marc Calvet in CALVET di Dominic AllanApproda al Biografilm 2012 Calvet, biografia tutt'altro che romanzata sulla straordinaria vita di Jean-Marc Calvet – prima ragazzo perduto, marchetta quindicenne, tossicomane, alcolista, poi legionario, guardia del corpo, criminale e bad lieutenant nello stesso tempo. E padre: una paternità mancata, che diventa la sua ossessione e poi una speranza di rinascita. Infine artista: anche dell'arte di dare il colpo di grazia al suo doppio oscuro e riprendersi se stesso.

Già presentato in molti festival internazionali, tra cui Edinburgo, Locarno, New York, Montréal e São Paulo, premiato come miglior documentario al Courmayer Noir Film Festival 2011, Calvet è diretto dal britannico Dominic Allan, autore di lavori per la tv, spot e alcuni documentari, dedicati a Nelson Mandela, alle forze israeliane in Palestina, alla geopolitica del petrolio e al Manchester United. Allan ha incontrato Calvet in Nicaragua, nel 2004, all'epoca un uomo che viveva in uno stato di costante paranoia, tra coprifuoco, pistole e rottweiler. Era solo l'inizio di una mutazione radicale.

Il racconto di questo omone muscoloso, tatuato, possente, non è solo verbale: è animato, gergale, animalesco, mimato in ogni punto, di feroce onestà e reso vivo dalla gigantesca partecipazione emotiva con cui l'uomo ricorda senza mai giustificarsi, ma al contrario, colpendosi duro a ogni parola, la sua battaglia costante contro il suo doppio oscuro: fino alla scoperta casuale della pittura,  non solo e non tanto come redenzione o terapia, quanto come una nuova, ma felice,  dipendenza. Lo smantellamento di un doppio tenebroso per ritrovarsi capace di amare e di essere amato.
Jean-Marc CalvetAl contrario della leggenda romantica per cui l'arte sarebbe il nobile frutto del dolore, qui è stato il dolore stesso a dettare legge e trasformarsi suo malgrado in arte: l'abbrutimento totale, per caso, quando Jean-Marc ha toccato il fondo ed è sull'orlo del suicidio, sfocia in una tragica battaglia contro un muro e genera una forma sconosciuta…
 
In una sola notte, per seguire come guardia del corpo un ricco uomo d'affari di Miami, che si scoprirà un mafioso, Jean-Marc abbandona il suo lavoro (bodyguard, anche a Cannes, per  gente come Mel Gibson, Forest Whitaker e Tim Robbins) ma soprattutto la compagna e il figlio di sei anni. Kevin diventerà un fantasma persistente nella mente dell'uomo, un pensiero distruttivo e lacerante, eppure egli continuerà a fuggire a lungo.
Jean-Marc racconta la sua vita senza il minimo autocompiacimento. "Ho fatto a loro la cosa peggiore, salvo forse ucciderli. Mi sono impegnato in tutti i modi a diventare un bastardo perfetto, e ci sono anche riuscito. Mi sono detto: cambierò paese ogni volta che non avrò il coraggio di guardarmi in faccia". E la racconta così spontaneamente, che un certo abuso di effetti, time-lapse e di "ricostruzioni" simulate da crime show televisivo è quasi fuori luogo. Allan si è innamorato della storia di quest'uomo nel 2004,  e opera questa scelta nel tentativo di ricostruire una specie di thriller, forse temendo che le parole non siano sufficienti, ma la presenza fisica dell'uomo sui luoghi della propria incredibile vita, dai bagni pubblici ai club, sarebbe perfettamente sufficiente a evocare la natura realistica e urgente dei suoi demoni.

Los Barbaros, di Jean-Marc CalvetIl tema del doppio non è un pretesto individuato dai critici nei dipinti di Calvet: è una coordinata del suo tempo. Jean-Marc non a caso parla del bastardo che lo teneva in una morsa, come di un personaggio. Da bambino dorme ai piedi del letto dei genitori, in una misera stanzetta, ascoltando i loro violenti litigi: presto li trasforma in mostri, alieni che di giorni riprendono il loro aspetto normale.
Più tardi, quando si trasforma da criminale in poliziotto, per un certo periodo lasciando convivere i due ruoli, gli è incredibilmente facile pescare spacciatori e delinquenti: "ci riuscivo, perchè ero come loro". Da qualche parte dentro di lui c'è sempre un altro che desidera amore, calore, una famiglia, una forma di equilibrio; ma quello fuori controllo, violento, spaventoso – impaurito, quello che "non ha le palle di essere un padre", lo distrugge a pugni, lo scaccia, prende il sopravvento. Sarà la battaglia finale con il suo doppelgänger, una creatura infernale che si manifesta dalle tenebre del suo dolore, a offrirgli una soluzione.

Fuggito in Costa Rica dopo un rocambolesco furto ai danni del boss americano, Calvet impiega i suoi soldi per comprare una casa alla fine di una strada, un bunker sorvegliato "sapevo che se fosse arrivata una macchina, sarebbe stata per me".
Là si imprigionerà in assoluta solitudine per nove mesi, arrivando a pesare 47 chili partendo da 130, lercio, invasato, delirante, una gigantesca macchina di autodistruzione alimentata con 3-5 litri di alcool al giorno e 20 grammi di crack, oltre a morfina, eroina e pillole. La sua apocalisse personale di allucinazioni visive e uditive lo paralizza, lo trasforma in un insetto folle e tremante (un Bug…) Ma una notte, lo spinge a perlustrare l'abitazione, a scardinare una scala e a trovare delle latte arrugginite che contenevano vernice. Jean-Marc Calvet Calvet scaglia la vernice contro il muro, contro quel muro batte la testa e le mani, e insieme alla vernice scorre il sangue. Fa sorridere un po' pensare ai tanti artisti contemporanei, per esempio Andres Serrano, che hanno utilizzato sangue e umori nelle loro opere come espressione di agitazione culturale e avanguardia artistica (e in alcuni casi anche solo per épater le bourgeois): Jean-Marc non ha studiato e non sa nulla di arte e pubblico, sta solo vomitando la sua rabbia contro il primo muro che gli si para davanti: quello della sua cella.

Oggi un dipinto di Calvet viene venduto a 20.000 dollari, i suoi quadri vengono esposti e apprezzati. Ma è stato il mercato dell'arte a definirlo artista: l'uomo, quarantenne, continua a dipingere semplicemente "per sopravvivere", ed è toccante osservarlo in una stanza di motel, dove aspetta la telefonata che forse lo rimetterà in contatto con suo figlio, letteralmente stuprare la carta di un taccuino con evidenziatori e pennarelli, segni violenti, inquieti: "non sono mai stato due giorni senza dipingere". La pittura è una zattera "senza, posso nuotare per un po', poi annego". Un uomo che si chiede sardonicamente come firmarsi – "tuo padre? il padre che ti ha abbandonato? quello che si è scopato tua madre? Scrivo solo Jean-Marc Calvet".

Jean-Marc CalvetIl documentario termina con il viaggio di Calvet dal Nicaragua al sud della Francia: malgrado sia troppo tardi per chiedere scusa a suo figlio del suo abbandono, l'uomo vuole almeno lasciargli un contatto, essere rintracciabile per rispondere alle sue eventuali domande, "non essere più un punto di domanda o uno spettro". Ci riuscirà. Il primo incontro con il figlio, abbandonato a 6 anni e oggi diciottenne, pudicamente, non verrà filmato: sarà solo una manciata di foto da lontano, in bianco e nero, come gli scatti degli investigatori appostati a cogliere gli incontri segreti.

Tutta la tenerezza e la fragilità di questo grande corpo incazzato sono nella sua capacità di aver dimostrato sulla propria pelle che non è mai troppo tardi: il proverbio qualunquista qui si trasforma in una chance, nell'imprevedibilità del destino di chi non nasconde le sue cicatrici, ma lascia sgorgare da esse una nuova possibilità d'amore.

 

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