#Biografilm2020 – Being Eriko, di Jannik Splidsboel

La brillante carriera della pianista giapponese Eriko Makimura, tra tour di performance sperimentali alla ricerca dell’essenza primaria del suo stravagante estro creativo

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Nel documentario Being Eriko (2020), vincitore del Nordic Documentary Award 2020 e presentato in anteprima internazionale al 16° Biografilm Festival nella sezione Art & Music, il regista danese Jannik Splidsboel (Louise & Papaya, Andre venner, How Are You, Misfits) ritrae con delicatezza la personalità artistica della pianista/performer giapponese Eriko Makimura. Il progetto è frutto di una collaborazione durata cinque anni, durante i quali il regista ha filmato l’artista, seguendola nel suo tour in Danimarca, Germania, Polonia e Giappone.

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«Quando ero più giovane l’essere pianista veniva prima, prima di essere Eriko. Ma ora è l’esatto contrario». Confida la protagonista, mostrandosi consapevole del fatto che la propria identità non possa essere definita da un titolo professionale. Oltre alla sua abilità, sviluppata ancor prima di poter comprendere la propria natura di essere umano, c’è un mondo interiore che necessita di esprimersi.

Attraverso il racconto in prima persona di memorie, aneddoti e sensazioni, intervallato da dialoghi con amici e colleghi di lunga data, è lei stessa a svelarci la propria vita: un piccolo genio (a due anni inizia a suonare il pianoforte, a cinque affronta la prima competizione musicale) che alla soglia dei trent’anni, dopo aver vinto numerosi premi (come il Krzysztof Penderecki International Chamber Music Competition nel 2007 a Cracovia), decide di cambiare rotta.

Smette di gareggiare per dedicarsi a una forma d’arte meno canonica, più sensoriale, esperienziale, scaturita da una volontà comunicativa inarrestabile. Parte per l’Europa alla ricerca di quel qualcosa in più, del «terzo occhio». Si allontana dalla cultura giapponese, che ha impartito una formazione troppo rigorosa al suo spirito indipendente e anticonvenzionale, ma non rinnega mai le proprie origini. 

Erika ama definire «Chamber cabaret» le proprie performance di movimento, recitazione e musica, fuse insieme per creare energia pura, per affascinare e incuriosire il pubblico ogni volta (ad esempio, usa il guantone e la palla da baseball sui tasti, si sdraia supina sotto il pianoforte e suona con le mani incrociate in una posizione faticosa, presa quasi da un impeto selvaggio).

Gli spettatori vengono sempre coinvolti attivamente nelle esibizioni, solitamente ambientate in spazi ristretti (stanze, capannoni, teatri) per una maggiore vicinanza; sono spesso chiamati a scrivere pensieri, frasi o parole sugli oggetti che interagiscono con l’azione musicale (sui legnetti appesi a un filo, sui fogliolini racchiusi nelle biglie che rimbalzano all’interno del pianoforte quando le corde vibrano sotto la pressione dei tasti). 

Talvolta si crea una sorta di connessione in cui l’artista e il pubblico condividono la stessa commozione, che deve essere espressa liberamente, mai trattenuta. In Eriko riaffiora il senso di frustrazione per le privazioni subite, per l’impegno estenuante nell’esercizio del pianoforte, per le percosse ricevute quando commetteva degli errori. 

Solo esprimendosi nella sua peculiare modalità — in scena e nel privato — conciliando nelle sue opere tutte le contraddizioni tra il grottesco e il raffinato, l’assurdo e il banale, Eriko riesce a conoscere veramente se stessa, ad accettarsi e a vivere serenamente la sua passione.

La sperimentazione di tecniche alternative è volta a rendere le proprie esibizioni uniche e innovative, accompagnate da momenti di condivisione della sfera privata, di debolezze e malinconie. L’arte rappresenta per Eriko un’evasione dalla quotidianità, ma al tempo stesso da essa trae linfa e spunto creativo che si rigenera continuamente, in un ciclo ininterrotto. La musica, svincolata dai canoni tradizionali, le dona conforto e ispirazione, permettendole di esprimere quella sua sensibilità talmente profonda da assume quasi una dimensione spirituale.

 

Talvolta agisce quasi brutalmente sul proprio corpo: si schiaffeggia ricordando le punizioni d’infanzia o si rasa totalmente le sopracciglia in scena per indicare la condizione — secondo le consuetudini giapponesi — di una donna sposata, sottolineando però che nel suo caso il gesto assume una forma di ribellione, in quanto “il matrimonio” avviene con se stessa, grazie alla conquista dell’autoconsapevolezza.

Il regista, presenza silenziosa e invisibile dietro alla macchina da presa, coglie ogni sfumatura della sua personalità stravagante (dai look eccentrici con ingombranti copricapo luccicanti o floreali, al trucco pronunciato sugli enormi occhini, alle movenze repentine o armoniose), avvicinandosi con lunghi primi piani (il neo sulla palpebra, lo smalto alle unghie) o fluttuando intorno al suo corpo in movimento. 

La narrazione del personaggio di Eriko è affidata alla musicista stessa (o ad amici fidati, come la nota drag queen danese Ramona Macho), mai a spiegazioni o giudizi esterni. Una ricerca della sua vera essenza che non risulta mai invadente, che emerge dalle immagini con veridicità e delicatezza. Perché in fondo — potenza del cinema (come della musica) — ciascuno percepisce ciò che sente secondo la propria sensibilità.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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Il voto dei lettori
5 (1 voto)
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