#Biografilm2020 – I walk, di Jørgen Leth

Il documentario dell’ottanduenne Jørgen Leth è un accorato invito al cammino, fisico ed esistenziale, e una riflessione sulla mortalità umana e sulla tensione verso il divino

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Dopo essere stato presentato in anteprima mondiale al 32 ° Festival internazionale del film documentario di Amsterdam (IDFA) dove era in concorso, I walk di Jørgen Leth arriva anche in Italia all’interno dell’edizione online del Biografilm Festival 2020. Il documentario del poeta e regista danese s’incastra perfettamente nel percorso autoriale di un uomo che ha sempre fatto del racconto di sé senza filtri la chiave per cercare di capire, egli stesso prima di tutto, l’insondabilità della confusione in cui è immerso. Dal 2010 il terremoto che sconvolse Haiti, nazione dove s’era trasferito da tempo, ha lasciato conseguenze anche sul suo corpo. Come racconta nella prima allucinante sequenza, immerso dentro una macchina per la risonanza magnetica esasperata da una luce bianca, i medici affermano che l’eziologia della sua sopravvenuta difficoltà a camminare non è di natura fisica ma psicologica. Leth comincia così un diario audiovisuale quasi ininterrotto nel quale provare ogni giorno ad esternare i suoi pensieri all’Iphone che sostituisce gli antelucani taccuini in cui era solito trascriverli.
La prima parte di I walk è ancora attratta in maniera macabra dal fascino della devastazione, sia della villa distrutta del terremoto (che è la stessa presente nella rilettura commissionatagli dall’amico Lars Von Trier de Le cinque variazioni), sia di un corpo che da sempre abituato a viaggiare per Paesi soffre l’impossibilità di farlo con la giovanile vigoria. Le riflessioni sulla vecchiaia e sulla decadenza, aumentati dalle sfocate riprese in notturna del suo corpo seminudo tarato dal tempo, rischiano a più riprese di avvolgere lo spettatore in una stato di cupezza. Ma ciò non avviene mai perché di fronte all’handicap fisico Leth risponde con la coraggiosa filosofia del cammino. Un passo dopo l’altro, dice a suo figlio che l’accompagna a Bangkok in uno dei frequenti viaggi, è il segreto per non soccombere alle difficoltà ed una latente depressione. La scelta di tornare in tre occasioni a rapportarsi col passato non rappresenta difatti un commiato funebre ma il tentativo di riappropriarsi di quelle forme di vita per poter continuare a sperimentarvi sopra.

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Il segmento ad esempio con Ole Ritter, il ciclista di cui aveva filmato il tentativo di riprendersi a Mexico City nel 1974 il record dell’ora rubatogli dal rivale Eddy Merckz in The Impossible Hour, quello con Torben Ulrich protagonista più di trent’anni prima del suo corto Motion Picture, e il suo ritorno trionfante al Tour de France dove per tanti anni era stato telecronista vogliono essere occasioni per riflessioni sempre cangianti sulle persone e sui posti che fortunatamente non restano mai uguali. Anche la chiesa di Port-au-Prince nel quale anni addietro egli era spesso andato è adesso una congerie di rovine gotiche e rosoni sormontati da una natura che s’è ripresa con indifferenza leopardiana i suoi spazi.

La frammentazione del documentario è il correlato oggettivo della mente di Leth che non riesce a far pace per tutto il corso del documentario con questa strana forma di claudicazione che l’attanaglia, continuamente deprecata senza rabbia e senza vittimismo però. Ne è dimostrazione la sua ultima impresa, di sapore quasi herzoghiano: ammaliato dal fascino della giungla di Laos che si estende selvaggia per chilometri e chilometri come il caos della psiche umana, tenta di isolarne un pezzetto in un quadrato d’assi rosse. Prima di arrivare in quello spiazzo c’è da superare un percorso fatto da scalini di fango, sforzo improbo per un vecchio – in un precedente segmento capisce con candore di non poter più fare le stesse cose di prima, o almeno non nella stessa maniera. Eppure Leth si mette ancora una volta alla prova con calma cocciutaggine: aiutato da indefessi laotiani riesce a giungere in cima e vedere il suo ultimo lavoro compiuto. Un quadrato rosso ripreso dall’alto prova a racchiudere un pezzo di foresta, isolandolo e marcandolo dal resto.
Perché quello e non un altro? Perché cercare di mettere ordine nel disordine? Ha senso provare a racchiudere l’infinito? I walk si chiude con l’ultima splendida apertura di senso dei versi di Leth: “La divinità è qualcosa che può essere misurata. E la morte è semplicemente qualcosa che accade. Qualcuno dice che c’è vita dopo la morte. Ma sarà vero?“.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.5

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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