Black Phone 2, di Scott Derrickson
Tra neve e incubi, il regista riapre la linea diretta con l’aldilà: trasforma le montagne del Colorado in un inferno bianco e rinnova il mito del male di King. Tra i migliori horror degli ultimi anni
Sulle montagne innevate del Colorado, più precisamente nel cuore del campeggio cristiano Alpin Lake, c’è una cabina telefonica in disuso da tempo: un vero e proprio reperto storico, che, pur essendo tale, garantisce una linea aperta con l’inferno, l’aldilà e, ancora, con il passato mai pacificato di alcune anime turbate, un po’ vittime e un po’ assassine. Vale per i due sfortunati fratelli Finney (Mason Thames) e Gwen (Madeleine McGraw), segnati fin dall’infanzia dalle ombre lunghe di un male inizialmente senza nome e poi dotato di maschera, sguardo e voce, oltreché di corpo: The Grabber. Il quale dialoga dolorosamente tanto con l’elaborazione del lutto e la perdita dell’innocenza, quanto con il mancato affetto familiare, dal quale deriva un potere oscuro che va custodito gelosamente o, peggio, disconosciuto — soprattutto all’interno di contesti provinciali e familiari evidentemente bigotti, cupi e disperati. Tematiche particolarmente care all’autore del racconto dal quale tutto è cominciato, Joe Hill, e ancor più allo spirito letterario di Stephen King, da sempre interessato all’indagine sul male in relazione alla famiglia e, ancora, ai ponti inattesi tra la dimensione terrena e quella dell’altrove, altrimenti detto aldilà.
Al timone, ancora una volta, Scott Derrickson, uno degli autori horror (e non solo) più interessanti e funzionali degli ultimi vent’anni di cinema. Due gli elementi di interesse del suo cinema, e dunque di Black Phone 2: la capacità di porsi stabilmente in equilibrio tra elevated horror e istinto commerciale; e, ancora, l’osservazione del male, pur sempre in dialogo con i simbolismi e i linguaggi della fede. Nonostante ciò, nella narrazione di Derrickson e C. Robert Cargill – co-sceneggiatore e amico di una vita – non c’è spazio alcuno per il mito, bensì per l’importanza assoluta delle radici, le quali escludono qualsiasi potenziale fanatismo, indagando a fondo il concetto di razionalità e collettività, qui via via più complesso, indefinito e mutaforma.
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Come detto, tutto si ricollega alla linea aperta con la morte, il male e il passato. Se, nel precedente capitolo, ciò accadeva nel buio squallido, terrificante e insozzato di sangue di uno scantinato rivelatosi poi prigione letale, Black Phone 2, prendendo di petto la questione dei “sequel maldestramente adagiati sui valori e successi delle loro origini”, conduce i suoi protagonisti altrove, mettendoli e mettendo sé stesso ulteriormente alla prova. La scelta è quella d’un altrove terreno — le montagne innevate del Colorado —messo in discussione sempre più dallo scenario onirico, meravigliosamente suggestivo e profondamente inquietante del sogno senza ritorno, il quale intrappola (e forse libera?) i giovani protagonisti del film, in compagnia del temibile serial killer The Grabber. Si riscoprono così Nightmare di Wes Craven, The Shining di Stephen King e, ancora, Sinister, dello stesso Scott Derrickson.
Infatti, laddove Black Phone, con merito, si faceva horror canonico d’impostazione kinghiana, questo secondo capitolo sembra guardare molto più alle potenzialità stilistiche e narrative del survival movie, creando e spezzando instancabilmente l’equilibrio tra confinamento in spazi limitati e abbandono ed esplorazione disperata in luoghi aperti — troppo aperti — dapprima della mente e poi della natura. Tali da rendere la wilderness spietata delle montagne del Colorado, un vero e proprio inferno in terra, nel quale, però, non vi è alcuna fiamma, bensì continue tempeste di neve che, tra confusione e adrenalina, ottenebrano la visione (e la libertà) tanto dei giovani protagonisti quanto dello spettatore. Nel mezzo, i fantasmi, il male e, ancora, la forza della fede. Per questo, la partecipazione emotiva, è più che garantita, seppur consapevole di un indubbio cambio di passo, oltreché di tono e di stilistica.
Derrickson e Cargill, a distanza di tredici anni, riprendono in mano definitivamente quanto lasciato in sospeso con il primo capitolo di Sinister, dando vita a un inatteso crossover tra quest’ultimo e il franchise (poiché diverrà tale) di Black Phone. Sul male che dapprima seduce e poi inganna la dimensione dell’infanzia, derubandola dell’innocenza e mostrandole con brutalità la ferocia degli uomini. E ancora sull’indagine della mente, dentro e fuori ciò che è reale e ciò che è, invece, immagine o immaginario altro, complicato ulteriormente dalla grana grossa della pellicola.
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Laddove il sinistro e il male atavico – King, King e ancora King – lentamente prendono piede per poi pattinare furiosamente sul ghiaccio, tra sangue, grida e neve, compiendo una vera e propria danza di morte, o, per dirla alla King, una Dansa Macabra sanguinosa, memorabile e terrificante. Una fiaba oscura, adulta e visionaria, sulla forza dell’amore e sulla capacità di osservare la vita oltre la perdita e l’abbandono, capace perfino di rinnovare il mito del male kinghiano. Tra i migliori horror degli ultimi anni.
Titolo originale: The Black Phone 2
Regia: Scott Derrickson
Interpreti: Mason Thames, Madeleine McGraw, Ethan Hawke, Demián Bichir, Miguel Mora, Jeremy Davies, Arianna Rivas, Anna Lore, Graham Abbey, Maev Beaty
Distribuzione: Universal Pictures
Durata:115′
Origine: USA, 2025





















