Black Phone, di Scott Derrickson

Scott Derrickson traccia le linee di un horror “abissale”, che riflette la crisi di un immaginario Ma la sua è solo un’ipotesi mai davvero afferata. Così il film non può che cedere alle convenzioni

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Scott Derrickson entra in contatto con quello che sarà Black Phone quando è ancora nelle fasi progettazione di Doctor Strange nel multiverso della follia. È lo sceneggiatore C. Robert Cargill, a parlargli di un affascinante racconto horror di Joe Hill, figlio di Stephen King, che incrocia evidentemente tanto le linee di It quanto quelle di Stand By Me.

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Sarebbe il soggetto perfetto per un film ma il regista è ancora impegnato contrattualmente con la Marvel. Poi, però, qualcosa va storto, Derrickson si allontana dal sequel di Doctor Strange per divergenze creative e così, a cuor leggero, richiama Cargill per ricordargli che ora, quel film che avevano in sospeso, può essere sviluppato senza problemi.

E allora, in una contemporaneità che è sempre più narrazione, Black Phone, almeno all’apparenza, non può che raccontare anche la rivalsa di un cinema a suo modo “d’autore” su uno spersonalizzato. Scott Derrickson, dopo la parentesi in Marvel, torna all’horror puro con un film che sembra essergli necessario soprattutto per disintossicarsi dalla sintassi della Franchise Age. Perché Black Phone è quasi un film pauperista sostenuto da una storia minimale, fondato sulla scrittura, sul dialogo, gestito quasi tutto in interni. Al centro del racconto ci sono appena tre personaggi principali ed una traiettoria narrativa essenziale: quando il giovanissimo Finney Shaw viene rapito da un pericoloso serial killer nell’America degli anni ’70, si rende conto di potersi mettere in contatto con le precedenti vittime dell’uomo, che lo contattano attraverso un telefono apparentemente non funzionante. Insieme a loro, il ragazzino cercherà di organizzare una fuga dalla sua prigione, mentre, fuori, sua sorella, chiaroveggente, prova disperatamente a cercarlo prima che sia troppo tardi.

Ma quello di Derrickson è anche un progetto attento alle sfumature da period drama in cui sceglie di iscriversi e ossequioso nei confronti di un racconto evidentemente debitore del respiro narrativo di Stephen King. Derrickson in effetti non vuole solo evitare certe facili scorciatoie narrative, ma anche dimostrare di saper maneggiare una materia narrativa complessa, che incrocia horror e racconto di formazione oltreché di poter dialogare con certa tradizione alta, sia essa quella dell’immaginario horror o quella rappresentata da uno dei più importanti autori di genere del contesto occidentale.

È indubbio che l’approccio di Derrickson funzioni. Black Phone ha infatti il pregio di riportare in primo piano, temi, motivi, approcci, a cui, secondo il sentire comune, certo cinema pop aveva finito per rinunciare. Non soltanto l’essenzialità della scrittura ma anche la possibilità di affidare tutto il peso del film alle spalle dei propri attori (qui Ethan Hawke e i suoi duetti con il protagonista convincono ma a svettare è forse la formidabile presenza scenica della piccola Madeleine McGraw), oltreché la fascinazione per un’atmosfera respingente, per i pianti senza tregua, per una disperazione dilagante, per una violenza tangibile, fatta di sangue, tagli, ecchimosi.

Ma magari tutto è solo un’esca, forse, il discorso di Derrickson è più complesso delle attese.

Il punto è che, malgrado le apparenze la sintassi della Blockbuster Age è sempre lì, al di là di qualsiasi tentativo di ricombinazione, tra uno spazio narrativo gamificato (al protagonista vengono affidati piccoli incarichi che, una volta portati a termine, lo premiano con la crescita della sua “esperienza” e con l’apprendimento di nuove capacità) e costruito prelevando da un archivio che spazia dallo slasher di marca ‘70s al seminterrato in cui è imprigionato il giovane Finney, quasi un ripensamento del bagno del primo Saw.

Black Phone

 

E allora l’altra storia che racconta Black Phone riguarda la pervasività di un certo modo di intendere la Blockbuster Age, che finisce per interferire anche con spazi, narrazioni, all’apparenza lontani da esso, per riscriverne la sostanza profonda. Per i più pessimisti è un altro segno della morte del cinema, ma forse è solo la conferma di come le meccaniche del cinema pop sono così fluide che un progetto quasi “indie” come questo (il film è prodotto dall’ormai onnipresente Blumhouse di Jason Blum) le conosce, le introietta e le utilizza.

Di certo c’è che Derrickson ripensa quel linguaggio fino a risultati inattesi e a tratti spiazzanti. Tra i fotogrammi di Black Phone, si indovinano infatti i contorni di un affascinante film “abissale”, forse il primo vero post slasher del cinema contemporaneo (con buona pace dello Scream di Bettinelli-Olpin e Gillet) un horror i cui meccanismi girano inesorabilmente a vuoto, un racconto in cui l’atto omicida è lasciato fuori scena e persino il serial killer pare rimandare di continuo l’exploit violenza, accontentandosi di confrontarsi con la sua vittima mantenendosi a distanza, forse inconsapevole di essere lui stesso parte di un progetto che finisce per museificare il suo stesso immaginario di riferimento.

A questo punto, allora, forse l’elemento che stride maggiormente col sistema è proprio lo sguardo di Derrickson che si limita a sfiorare soltanto i margini di uno spunto così radicale, senza indagarne davvero i sottotesti. Piuttosto, lo lascia emergere tra le immagini, a tratti lo rimarca, sperando, forse, che o il film o lo spettatore lo facciano reagire pienamente, sollevando il regista da una responsabilità che non riesce a gestire fino in fondo. Derrickson percepisce forse la complessità del suo ragionamento e non si sente abbastanza pronto per raccontarne davvero gli sviluppi sulla scena. Alla lunga, tuttavia, il suo disagio si fa strada nel tessuto del racconto. Così, a tratti la presa del regista sullo spazio narrativo pare allentarsi, la costruzione di immagini e situazioni rischia di farsi troppo invadente e Derrickson si lega troppo a certe dinamiche e situazioni, a tal punto che in certi momenti rischia di ripetersi e di abbassare pericolosamente il ritmo del racconto.

E allora Black Phone non può che essere un film affascinante ma anche indeciso, incapace di scegliere se saltare nel vuoto o rimanere negli spazi rassicuranti di un contesto riconoscibile. Derrickson cerca il film della consacrazione ma deve accontentarsi di un progetto di transizione, ricchissimo di idee, ma al contempo dispersivo, che diventa uno spiraglio su un’autorialità promettente ma evidentemente ancora di là da venire.

 

Titolo Originale: The Black Phone
Regia: Scott Derrickson
Interpreti: Ethan Hawke, Mason Thames, Madeleine McGraw, Jeremy Davies, James Ransone, E. Roger Mitchell, Troy Rudeseal
Distribuzione:  Universal Pictures Italia
Durata: 102′
Origine: USA, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3
Sending
Il voto dei lettori
3.59 (17 voti)
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