Blog DIGIMON(DI) – Corpi e Codici nell’era della nuova visione (Blackhat)

Blackhat Michael Mann

In un colpo il cinema di Michael Mann mette nel ripostiglio dell’immaginario tutti gli eroi di cui è fatto il cinema contemporaneo e finalmente possiamo consegnare il Cyberpunk alla Storia… dal Blog DIGIMON(DI) di Federico Chiacchiari

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Ci sono diversi motivi per cui Blackhat è un film “confine”, punto di non ritorno del cinema di questi anni. Molti li ha tracciati, con meravigliosa intuizione (immaginario-torrent…), Sergio Sozzo nella sua recensione al film, che è già una mappa per orientarsi su “dove stiamo andando”.

 

Ma proprio in questa mappatura sui confini del visibile, sugli incroci ormai inevitabili tra Corpi e Codici, stanno le indicazioni indispensabili per “liberarci dell’arte cinematografica” (quel “Vizio di forma” presente ossessivamente in tutte le opere che oggi affascinano gli sguardi mainstream, da Birdman a Whiplash, esempi perfetti di cinema che lavora “sul controllo delle forme estetiche” come se fossimo ancora nel XIX secolo della “Società di massa”…) e, finalmente, scaraventarci nel mondo 010001000101, dove, forse, quello che vediamo è, definitivamente, quello che “siamo diventati”.

 

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Siamo in una gabbia invisibile (scrive ancora il prodige Sozzo), fatta di reti e onde e radiazioni che sono tutte intorno a noi, e solo pochi sanno vederle. Ancora, ricordate ?, torna il precursore John Carpenter con il suo Essi vivono, dove bisognava indossare degli occhiali alla Blues Brothers per scavalcare il “muro di illusione” su cui è costruita la società moderna. Ecco, oggi non ci sta più un dentro e un fuori, o meglio l’essere umano è diventato un continuo viaggio di andata e ritorno tra l’essere analogico e l’essere digitale. Siamo corpi e “siamo” codici. Ogni nostra azione quotidiana, dalle operazioni bancarie, una visita medica, fino ai cuoricini su whatsapp, passa attraverso il filtro del codice. Non solo il lavoro, l’economia, lo spettacolo, ma l’intera esperienza emozionale e sentimentale passa ogni giorno dentro le “gabbie” dei codici binari, e quella magnifica e prolungata sequenza iniziale di Blackhat, che prova a “visualizzare l’invisualizzabile” (come diavolo è fatto, visivamente, un bit?), è solo un ponte, un link visivo che cerca di dare materia alla smaterializzazione dell’essere.

 

Ma oggi il bit non è più solo un processo per entrare in banche dati e ripulire conti correnti (anche se Mann non sa resistere all’autocitazione di Heat, cercando di spostare l’attenzione sulla fisicità delle pistole in una sequenza letteralmente esplosiva), ma entra direttamente nelle mille attività possibili della vita quotidiana delle persone, dentro le fabbriche, dentro la produzione: insomma l’hacking può trasformarsi in attività cinetica. E il tasto Enter trasformare una sequenza di bit in un “falso allarme” tecnologico che provoca “l’incidente del futuro”.

 

chkzr0cigj85c78uxdqrDentro/fuori, tra i corridoi sotterranei e le centrali nucleari (l’incubo del ‘900 come scenario “rètro”, perché quello è solo un “diversivo”, oppure un magnifico atto esibizionista), l’hacker diventa il corpo vitale del XXI secolo, colui che solo può combattere il crimine attraverso le falle delle protezioni ai dispositivi che “governano il mondo”.  E per vincere il novello Edward Snowden (è lui il vero eroe dei nostri giorni, non l’American Sniper, corpo orgogliosamente attaccato a ciò che si vede e gli si può sparare) deve però trasformarsi “fisicamente”. Da nerd in carcere il protagonista Hathaway, per “attrezzarsi al futuro”, si trasforma nel “Dio della (nuova) Guerra” (Thor, no?).

 

In un colpo il cinema di Michael Mann mette nel ripostiglio dell’immaginario tutti gli eroi di cui è fatto il cinema contemporaneo, perché il “nuovo eroe” deve saper entrare/uscire da luoghi virtuali/reali con la stessa abilità, entrare nei labirinti binari e uscire in 74 diverse location possibili.

 

Oggi, con Blackhat, finalmente possiamo consegnare il Cyberpunk alla Storia, e iniziare una, incredibilmente complessa, nuova visione.

 

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