Blog DIGIMON(DI) – Il migliore dei futuri possibili?

Zigzagate sul futuro che è il passato e il passato che è il futuro

“Esiste ancora per te il sense of wonder?
Io trovo sia finito con Zagor”
dall’intervista di Lo Sgargabonzi ai Dustyeye

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Chissà se esiste ancora, davvero, il tempo. O meglio il “senso del tempo”. Un secolo e oltre di relatività e teorie quantistiche e altrettanto di narrazioni cinematografiche hanno disorientato il senso della nostra “continuità”, quella percezione comune che ci ha sempre permesso di distinguere con una certa (illusoria?) convinzione il concetto di passato da quello di futuro.
Ancora l’immaginario collettivo del secondo novecento ci restituiva una Storia fatta di luci, costumi, mode, che caratterizzavano i decenni del XX secolo. Fino a qualche decennio fa potevamo vedere un filmato, o guardare una foto, e con una buona probabilità potevamo individuare l’epoca, il passato appunto, nelle fotografie dei nostri padri e dei nostri nonni. Poi a un certo punto è arrivato il punk, con il suo collage e cut-up culturale, e improvvisamente tutto poteva essere “riciclato” e usato con un segno diverso. Il passato e il presente si mescolavano arbitrariamente in un mix di stili, tutto sotto l’egida culturale del “no-future”.

Sono passati 40 anni da allora e, forse, solo ancora negli anni ’80 riusciamo a individuare
degli stili “riconoscibili” come passato (ma proprio allora Robert Zemeckis ci aveva giocato follemente con il trittico di Ritorno al futuro), perché dopo di allora ci vuole un ottimo decodificatore culturale per orientarsi tra le mille sottoculture (mainstream, antagoniste o finte antagoniste), tutte frutto di mixaggi culturali continui e sempre più sofisticati, al punto che per un ragazzo di oggi alcune produzioni (Stranger Things?) rappresentano sul serio una sorta di nuovo “alfabeto” di riferimento, per capire (ma si capisce sul serio?) da dove si arriva nel racconto del presente.

References to 70-80’s movies in Stranger Things from Ulysse Thevenon on Vimeo.

Ma in fondo questo continuo rubare in andata e ritorno dal passato al futuro è qualcosa che probabilmente appartiene all’esperienza dell’uomo moderno, e in tal senso la storia di Civiltà perduta di James Gray (uno dei momenti più emotivamente coinvolgenti della stagione) è proprio quella di un uomo che, nel pieno dell’idea di Progresso della

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Rivoluzione Industriale tra la fine dell’800 e l’inizio del ‘900, nel ricevere l’incarico di scoprire per colonizzare nuovi territori per un grande “futuro” occidentale, si ritrova ammaliato dal meraviglioso passato della “civiltà perduta” di cui ritrova dei segni di incredibile ricchezza e modernità. E mentre il mondo va ad autodistruggere il concetto di Progresso dentro la sanguinosa Grande Guerra, all’esploratore non resterà che coinvolgere anche il figlio (il tema della famiglia tanto caro a Gray) per ripartire per la sua ricerca infinita, fino a letteralmente sparire nel “nuovo mondo”…
E mentre il tempo della narrazione, dai primi meravigliosi flashback dei noir degli anni quaranta, si attorciglia sempre di più su se stesso dentro meccanismi temporali complessi se non addirittura ossessivi (la serie di 13 Reasons Why, con l’iconografia del passato – le cassette, la musica – come arma culturale per raccontare una storia che si regge solo ed esclusivamente sul passato – per non parlare di The Affair…), nei cicli di fantascienza, anch’essi post-moderni in una serialità coatta, il ciclo dell’evoluzione dell’uomo viene capovolto, e la speranza in The War, il pianeta delle scimmie, non è più affidata agli uomini (persi tra le armi e i vaccini…) ma alle nostre future evoluzioni di scimmie 2.0…

Siamo nel pieno di un’epoca che degli stili culturali ha ormai fatto un infinito “ritorno al futuro” e solo la liturgia trascendentale di David Lynch ci può riportare, ontologicamente,
all’origine di questa “follia umana”. E non a caso la puntata più incredibile e forse la visione più accecante di questo 2017, la ormai mitica n.8 della Terza Stagione di Twin Peaks, prenda spunto proprio da quella prima esplosione nucleare, luglio 1945, momento in cui simbolicamente l’uomo ha messo su un pazzesco dispositivo di autoannientamento globale, frenato dalla paura della Guerra Fredda, mentre la macchina infernale del capitalismo globale produceva in tempi un po’ piu lunghi la stessa autodistruzione con il processo del Global Warming.
Dove sta il passato, dove sta il futuro nella narrazione lynchiana? Tutta la serie è un contenitore folle di “dispositivi riproduttori di fantasmi” (cit. Alessandro Cappabianca), e la successione cronologica degli eventi sembra apparente, come fossimo finiti tutti noi spettatori nella Loggia Nera in cui è rinchiuso l’agente Cooper, corpo frammentato che esplode/implode nei suoi doppi narrativi. Fuori dalle ipercontrollate linee temporali parallele e diverse del Nolan di Dunkirk, Lynch rilancia una visione dove il tempo sembra essere una sorta di stato d’animo filosofico, un “mondo perduto” dal quale si proviene o verso il quale si è proiettati, sorta di magnifico “quadro pittorico”, nel quale annichilirsi in un’infinita e reiterata Sindrome di Stendhal.
E allora in questo “mondo perduto” – mentre i primi robot iniziano a comunicare tra di loro in un linguaggio sconosciuto – che appare ogni giorno diretto verso un baratro inevitabile, non ci resta, forse, che affidarci ai “messaggi provenienti dal futuro” (come accadeva in quel meraviglioso film di John Carpenter che era Il signore del male / Prince of Darkness), come queste fantastiche targhe apparse sui muri di Roma, opera “passatista/futurista”(? ) di DustyEye che illustrano qua e là questo articolo…
Il migliore dei futuri possibili, già, forse veniamo tutti da lì a chiedere, come in Terminator,
dove abbiamo sbagliato e potevamo fermarci…

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