Blog DIGIMON(DI) – La fabbrica dei cinesi… e i sensi di colpa di noi consumatori

Ho appena comprato un nuovo e luccicante Ipad2. Me lo coccolo come fa un bambino con il suo giocattolo, e ne scopro in ogni momento le infinite funzioni e possibilità. Me lo porto in giro e lo mostro agli altri. Ci navigo, leggo libri, ascolto musica, faccio video, foto, guardo le mappe, insomma sono nel pieno del diluvio universale del mio “essere digitale”. E’ una macchina, solo una macchina , mi ripeto. Ma che macchina! E’ il gadget del XXI secolo, come l’automobile lo è stata del secolo scorso. Leggero, quasi inconsistente, lo porti ovunque e, dappertutto, sei connesso e meravigliosamente a tuo agio nelle reti Internet. E finalmente quando parti non devi più decidere che libro scegliere, perchè puoi portarti l’intera libreria in e-book e, se vuoi, comprare un nuovo libro in albergo, in ascensore, in treno o dove vuoi. Anche Sentieri selvaggi si legge bene, seppur ancora non pensata appositamente per i tablet. Ma funziona. Anche se il web ci appare improvvisamente un po’ “antico”, come se appartenesse a un’altra epoca, gloriosa e vicina eppure, ormai, deliziosamente rètro. Siamo nel futuro, posso finalmente sfogliare il mondo con le dita, via quel brutto mouse che ci ha rovinato i polsi per anni, eccomi a giocare con due-tre dita, con un quasi erotic-touch ammaliante ed eccitante. La scrittura scivola veloce, sulla tastiera virtuale, e improvvisamente mi sento leggero, vado veloce veloce… mi sembra di essere dentro “Burning Chrome” di William Gibson, finalmente…

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Poi, mi ritrovo tra le mani una rivista di carta, Wired, l’edizione italiana della celeberrima rivista diretta da Chris Anderson. Che ha un sito Internet che consulto spesso, davvero molto ma molto interessante. E cosa leggo? Un articolo di Joel Johnson intitolato “Gadget senza anima”, (qui l’originale su Wired.com on line “1 Million Workers. 90 Million iPhones. 17 Suicides. Who’s to Blame?”): http://www.wired.com/magazine/2011/02/ff_joelinchina/all/1 ) un reportage sulla fabbrica cinese Foxconn, quella che produce componenti per IPhone e Ipad dove, negli ultimi anni, si sono suicidati ben 17 operai, lanciandosi dai terrazzi delle fabbriche. Vi riporto solo il finale, l’articolo è lungo e va letto integralmente, lo trovate in edicola nel numero di Aprile di Wired, appunto. Ma dovremmo leggerlo tutti ogni volta che acquistiamo un nuovo prodotto della tecnologia, dagli smartfone ai tablet, passando per TV e videocamere HD ecc…. E come un monito a noi stessi: cosa stiamo facendo (al mondo)?

joel Johnson“Nella mia carriera ho scritto migliaia di post e milioni di parole sulle cose. Di solito erano cose con dentro l’elettricità. Far questo di mestiere, sia pure a intermittenza, per quasi dieci anni, ha alterato molto profondamente la mia percezione del mondo. Non riesco più a vedere il mondo materiale come un insieme di oggetti, ma vedo interfacce, storie e materiali.

E provo anche un certo senso di colpa perchè ormai sono completamente immerso in un materialismo che, direttamente o indirettamente, contribuisco a propagandare. Non so se ho davvero diritto alle grandi quantità di materia e di energia che ogni giorno consumo. Ho a lungo ritenuto che fosse normale, ma ora so che il pianeta non è in grado di reggere il mio stile di vita, moltiplicato per sette miliardi di individui. E credo che questa mia intuizione sia condivisa, magari anche solo inconsciamente, da tutti noi occidentali.

Le reti antisuicidio, intorno alla fabbrica della FoxconnOgni cosa che tocchiamo e consumiamo – come la carta su cui è stampata questa rivista, o il monitor su cui compare questo articolo – non è solo efffimero, ma è non rimpiazzabile, nel senso letterale della parola. Ogni bene ha un costo, che non è ripagato dal suo prezzo: è una risorsa che svanisce. Noi dissipiamo mucchi di energia che basterebbero per milioni di anni, dissipiamo risorse vitali del nostro pianeta per produrre non solo oggetti necessari alla nostra sopravvivenza e al nostro benessere, ma anche oggetti buoni soltanto a soddisfare la nostra brama innata di possesso. E’ un senso di colpa che tentiamo di tenere a bada con la speranza che la nostra cultura consumistica stia rendendo migliori le condizioni di vita. Quelle nostre, naturalmente; ma anche, sia pure in misura minore, quelle di coloro che non possono permettersi tutto ciò che noi compriamo, consumiamo o possediamo.

Ma non appena questa piccola rassicurazione viene anche leggermente messa in dubbio, quando si spezza quel filo che lega il nostro consumo ai milioni di esseri senza nome che ci consentono il nostro stile divita, ci troviamo a guardare un abisso – un futuro senza fine, su un pianeta vuoto ed esausto – veramente intollerabile.

Se 17 persone si sono uccise, mi chiedo, ho fatto loro del male con i miei desideri? Anche solo un pochino?

E naturalemente la risposta, inevitabile e non misurabile, è: sì.

Solo un pochino.”

(da Wired, aprile 2011, pag. 123)26

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