Blog DIGIMON(DI) – La morte, fuoricampo

Un presidente che uccide i nemici senza spavalderia è meglio di un fanfarone che non uccide i nemici dell’America” ha scritto Jeffrey Goldberg su Atlantic, nella sua lettura, approfondita e sincera, della foto della “Situation Room” che la Casa Bianca ha diffuso all’indomani della uccisione di Osama Bin laden. Sulla stessa foto è tornato anche il Corriere della sera, con un articolo di Valentino Paolo, che scrive: “Guardatela, perché essa rovescia tutte regole dell’ informazione moderna, avida divoratrice d’immagini che sole possono sostanziare i fatti e che qui invece scorrono su uno schermo che non vediamo. Eppure, nell’ offrirci in modo anche impietoso la spasmodica tensione nervosa di quelle ore, questa fotografia diventa documento inconfutabile di provaNon abbiamo ancora visto le immagini di Bin Laden morto, né quelle del suo rispettoso funerale marino. Non abbiamo visto, difficilmente vedremo le immagini dei Navy Seals in azione. Ma nessuno di noi, a parte i soliti maniaci delle teorie cospirative, nutre il minimo dubbio sulla verità sostanziale di quanto è accaduto il 1° maggio nel compound di Abbottabad ”

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L’articolo descrive molto dettagliatamente chi sono i personaggi immortalati nella foto, con le diverse sfumature comportamentali.

Perché è interessante questa foto? Sì, certo, l’immagine del Presidente Obama, un omone di un metro e novanta che improvvisamente appare piccolo, curvo e rannicchiato ai margini dell’immagine colpisce, così come l’”umanità” del gesto della Clinton.  Sembra un foto costruita per raccontare un team: da un lato la pragmaticità e freddezza dei membri dello staff, dall’altro l’emozione e, soprattutto, la mancanza di spavalderia e sicurezza, come notava Goldberg. Un messaggio agli americani: il vostro Presidente c’è, agisce e risolve, ma non si mette l’elmetto e fa finta di combattere, al contrario come qualsiasi essere umano è preoccupato di quanto sta vedendo. Un’immagine da marketing politico globale.

Ma c’è di più. Quello che davvero colpisce è “fuori dal quadro”, nel fuoricampo dell’immagine. Ne avevo già parlato in occasione dell’uscita del film di Nanni Moretti. Oggi, dove siamo ossessionati dal vedere, dalle immagini che rimbalzano in continuazione da uno schermo all’altro, dove noi stessi siamo diventati immagine (cos’altro siamo nelle autopresentazioni di Facebook, Linkedin, o altro?), dove vediamo il filmato dell’impiccagione di Saddam, dove la morte è perennemente “in campo” (ricordate la morte di Neda, la ragazza iraniana divenuta simbolo della rivolta verde?), dove tutti possiamo vedere tutto, dove siamo accecati da questo eccesso di visioni…. Insomma ecco che si comincia a lavorare sulla sottrazione dell’immagine. Su quello che non si puo’ mostrare. Viene in mente Andrè Bazin e il suo “Morte ogni pomeriggio”: “Io non posso ripetere un solo istante della mia vita, ma uno qualsiasi di questi istanti il cinema puo’ ripeterlo in definitivamente davanti a me. Ora, se è vero che per la coscienza nessun istante è identico a un altro, ve n’è uno sul quale converge questa differenzazione fondamentale: quello della morte. La morte è per l’essere il momento unico per eccellenza (…) Due momenti sfuggono a questa concessione della coscienza, l’atto sessuale e la morte. L’uno e l’altro sono alla loro maniera la negazione assoluta del tempo oggettivo: l’istante qualitativo allo stato puro. Come la morte, l’amore si vive e non si rappresenta – non è senza ragione che lo si chiama la piccola morte –  o almeno non lo si rappresenta senza violazione della sua natura. Questa violazione si chiama oscenità. La rappresentazione della morte reale è anch’essa un’oscenità, non più morale come nell’amore, ma metafisica. Non si muore due volte” (da “Che cos’è il cinema?”).

Quello che ci dice – non mostrando l’evento ma il riflesso sui volti dello stesso – questa foto, è che nel XXI secolo la visione ha passato il segno. Non è più né realismo né rappresentazione, ma “oscenità metafisica”.  E la moralità diventa come una sorta di autocensura etica, in cui si difende la propria libertà di vedere ma non (più) rappresentare, dove l’atto del non mostrare diventa il nostro grado di (preziosa) civiltà. Non interessa cosa hanno da nascondere la CIA e il Governo americano, ma, dai corpi straziati di Piazzale Loreto di Mussolini e della Petacci, con la gente che inveiva sui cadaveri, e dalle “immagini necessarie” dei cadaveri ammucchiati nelle fosse dei campi di sterminio nazisti, siamo passati a un’epoca in cui l’immagine simbolica è ormai devastante, dove nulla sembra più sfuggire all’occhio. E allora ritrarre lo sguardo, condividere le emozioni e non le visioni, sembra diventato un gesto “altro”, qualcosa che si differenzia dall’apologia della visione a tutti i costi. L’etica professionale di non smettere mai di filmare, fino all’ultimo fotogramma possibile, diviene in questa fotografia un nuovo “limite”. Si puo’ discutere sulle motivazioni che stanno dietro la “censura” di queste immagini. Ma lasciare la morte nel fuoricampo, è un atto morale forte. Non si muore due volte….

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