Blog DIGIMON(DI) – La scomparsa del buio….

(il cinema oltre la fine della sala cinematografica nell’era della condivisione)

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In settimane in cui il profilo Twitter di Mark Zuckerberg è stato hackerato (e la sua password dadada sbeffeggiata…),  in cui Amazon ha lanciato la distribuzione per la prima volta di prodotti surgelati, e Snapchat ha superato Twitter con 150 milioni di utenti giornalieri, e mentre in Italia il flusso delle “narrazioni” hanno preso la strada delle elezioni amministrative… l’immagine che più mi ha colpito è stata quella dei 60 cittadini della Corea del Sud, impegnati nella manifestazione/concorso “Space Out”.

Nato come evento/installazione artistica nel 2014, oggi Space Out è sostenuto dal Consiglio Comunale di Seoul, e ha visto oltre 1500 candidati online per i 60 posti del Concorso.

Cosa dovevano fare i partecipanti? Trascorrere 90 minuti seduti in un parco pubblico a Seoul, senza parlare, dormire, mangiare e, soprattutto, senza utilizzare alcun dispositivo elettronico.

Alcuni hanno rilanciato le foto dell’evento, classificandolo – forse un po’ in fretta e semplicisticamente – come una sorta di rivolta contro l’abuso di smartphone e tablet, e della vita sempre online dei nostri giorni. “Rilassa la mente” era lo slogan, e tuttavia la celebrazione dell’evento stesso è passata e divulgata proprio attraverso quei dispositivi che la manifestazione intendeva, anche se solo per 90 minuti, allontanare. Guardando le foto dei partecipanti, quasi in trance, possiamo certo capire qualcosa di noi stessi, del nostro futuro, considerando che la Corea del Sud è il paese – per uso dei suoi abitanti – tecnologicamente più avanzato del mondo.

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Ebbene cosa ci riserva il futuro? Un forte desiderio di “disconnessione”. Ne avevo parlato anni, fa, in un vecchio post, in cui citavo un bel racconto di Gary  Shteygart.

Eppure, nel guardare quei volti, viene da domandarsi: è necessario partecipare ad un Concorso per “disconnettersi”?  Perché non possiamo fare la stessa cosa quando e dove ci pare, ovunque e dappertutto?

Bypassando per un attimo il concetto di “performance artistica” (meravigliosamente giocata sulla “sottrazione” delle attività umane, perché non era vietato solo usare strumenti tecnologici, ma anche leggere e parlare), l’elemento che più colpisce è quello della rappresentazione, della partecipazione ad un evento, e in particolare dalla possibilità di condividere questo “silenzio”. Vivere questo momento di relax assoluto nel segreto delle nostre mura domestiche non avrebbe senso. Il senso lo dà proprio la condivisione. Fare questo “gesto assoluto” insieme ad altri, in un luogo pubblico, dove altri ancora potranno comunque riprendere e rilanciare il mio stato di assoluto relax, così faticosamente raggiunto.  dozens-of-citizens-take-part-in-seouls-space-out-competition-in-which-participants-are-required-to-s_552375_Detto che il vincitore del Concorso è stato colui che ha avuto la frequenza cardiaca più stabile (un rapper locale di nome Shin Hyo-Seob, noto come  Crush)  il che conferisce all’evento un potere di stabilizzatore delle proprie emozioni, resta la forte sensazione che la “condivisione”, meglio ancora se mediatica, meglio ancora se in “real time” (e la diffusione delle dirette Periscope e, da qualche settimana, anche di Facebook, sta crescendo smisuratamente) sia un po’ la misura dell’immaginario di questo inizio secolo.

Mentre la “narrazione collettiva” si espande sempre più nel Flusso Social, ogni evento, ancor più ogni manifestazione culturale, esiste solamente se è fortemente condivisa. E a volte conta più quanto l’evento stesso sia condiviso nei canali virtuali di quanto l’evento in sé possa catturare l’attenzione di corpi reali.

E mentre vedevo questi corpi al sole, che non parlano, non leggono, non usano il cellulare, ma sono uno al fianco dell’altro, mi è venuto in mente che questo tipo di attività, una volta, nel secolo scorso… era propria del cinema. Al cinema non parliamo (non dovremmo), non dormiamo (non dovremmo…), non usiamo il cellulare (non dovremmo)…  Al cinema, in qualche modo, “rilassiamo la mente”, abbandonandoci per un’ora e mezza o poco più, alle vite immaginarie che ci scorrono davanti agli occhi.

E allora se il Cinema aveva già questa funzione di “rilassatore sociale” (con le nouvelle vague e gli sperimentatori a cercare invece di catturare l’attenzione per una rivolta dello sguardo), perché oggi le sale, una dopo l’altra, inevitabilmente chiudono? Perché non ci piace più così tanto, come un tempo, andare al cinema?

imageMentre le sale chiudono (per mancanza di spettatori e perché sono diventate economicamente insostenibili), a Roma da circa un anno un gruppo di ragazzi che aveva occupato l’ex Cinema America (trasformandolo da luogo chiuso da anni in un centro di aggregazione giovanile), sta invece riproponendo la “centralità della sala”, lottando contro la chiusura di tutte le sale della città, organizzando proiezioni nelle piazze (“schermi pirata”), prevalentemente nel quartiere di Trastevere, riuscendo da un lato a riempirle ogni volta di spettatori (ma attenzione: non si paga!), dall’altro a coinvolgere una buona parte del cinema italiano che, uno alla volta, hanno prima espresso solidarietà poi partecipato alle proiezioni, mentre la Fondazione Cinema per Roma (si quelli del Festival di Roma) li ha pubblicamente sostenuti nelle loro ultime manifestazioni, fino alla assegnazione, da Bando, dell’ex Sala Troisi, chiusa da diversi anni, sempre a Trastevere.

La domanda è: perché al cinema non ci si va più (e quindi poi gli esercenti, soprattutto delle monosale, sono costretti a chiudere), mentre le piazze di Trastevere si riempiono di vecchie e nuove generazioni di spettatori? Non certo per la programmazione inedita o particolarmente coraggiosa, perche questi ragazzi hanno da subito affermato il concetto di Cinema come “sala cinematografica” e non come “film”: il contenitore, non il contenuto. E neppure per una vocazione “ribelle” o rivoluzionaria, perché i ragazzi sono ben felici di “istituzionalizzarsi” e partecipare ad eventi della Fondazione Cinema o ricevere Nastri d’Argento dal Sindacato giornalisti.

La differenza sembra  farla il contesto.

Cosa colpisce in queste immagini di piazze piene di persone, allegramente immerse nella visione di un film?  L’assoluta mancanza del “buio della sala”. Finalmente posso assistere a un evento, vedere (o intravedere poco importa) un film, parlare con il mio vicino (come ai vecchi tempi di Massenzio!) e, soprattutto, non rinunciare neppure per un minuto al mio inseparabile smartphone, con il quale posso assicurarmi di connettermi e condividere le immagini di questa esperienza su Instagram o altri canali social.

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Ecco, il Cinema, a Trastevere, sembra essere ritornato alle origini. Dove quello che contava era soprattutto l’esperienza della visione, e non il film in sé (il concetto di film arriverà almeno vent’anni dopo, con Griffith). Oggi il cinema funziona se diviene esperienza. Funziona nelle piazze organizzate dai ragazzi del Cinema America Occupato, funziona nei film che escono in sala “solo per due giorni”, o in alcune manifestazioni dove è l’evento al quale partecipare che aggrega, non la visione in se di un film.

Nel buio di una vecchia sala, credevamo di condividere la visione con gli altri spettatori. Corpi sconosciuti ma a noi fisicamente attigui, con i quali immergersi magicamente nella visione collettiva. Oggi la visione o la partecipazione ad un evento lo vogliamo condividere con le persone che amiamo o conosciamo, anche – soprattutto – se si trovano lontano,fisicamente, da noi. Vedere un film a casa, da soli o con amici, oppure in una piazza o in un “happening di massa”, diventa quindi un’esperienza della visione da condividere, e il condividere in sé quasi sostituisce la centralità del vedere. Non serve più vedere, ma esserci, vivere l’esperienza. E comunicarlo agli altri.

Cinema aperitivo, friendly e trendy. Tutto il contrario del luogo oscuro (cosi vicino all’idea di morte) di una sala cinematografica….

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