Blog DIGIMON(DI) – L’ultimo umano possibile… Novecento, Ultimo Atto.

“Senza che ce ne accorgessimo, in un breve intervallo di tempo – quello che ci separa dagli anni settanta del Novecento – è nato un nuovo umano.  Lui o lei non hanno più lo stesso corpo, la stessa speranza di vita, non comunicano più allo stesso modo, non percepiscono più lo stesso mondo, non vivono più nella stessa natura, non abitano più lo stesso spazio.”

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Michel Serres “Petit Poucette” (“Non è un mondo per vecchi”)

 

Forse quello che differenzia Her da tutti gli altri film sulla “fine del corpo” di questi tempi, è tutta una questione generazionale. Jonze ci parla già del “nuovo umano”, completamente integrato nelle dinamiche comunicative delle reti, quell’ “individuo che non sa più vivere in coppia” (ancora Serres…), e che però non può rinunciare alla sua valenza antropologica di “essere sociale”.  Ma oggi, nel futuro, sono gli interfaccia digitali a garantirci che non siamo “soli”. Premi un tasto, clicchi su uno schermo ed ecco che “la vita” entra in contatto con noi, esseri sconosciuti, oppure appena conosciuti, o anche vecchie conoscenze, ci appaiono sulle bacheche virtuali e ci 

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HER SPIKE JONZEpermettono di entrare “in contatto” con il mondo. O meglio con “un” mondo. Il corpo dell’umano si fonde con l’interfaccia del software, ne assume le movenze, le sembianze, mentre “l’altro da se digitale” tende sempre più, un po’ come fanno i cani con i loro padroni, ad assomigliarci. Il corpo diventa macchina, la macchina si fa corpo. Quasi ci siamo.

Ma il Cinema, uso spudoratamente la Maiuscola, quello di oggi, seconda decade del secolo duemila, sembra raccontare, ancora, di altre solitudini. Di corpi solitari, nati nel Novecento, che fanno i conti con la propria “fine del mondo”. Corpi smarriti nella “terra di mezzo” dell’Evoluzione, forse gli ultimi umani prima della “nuova generazione”, quella che si fonderà, appunto, con la macchina.

No, qui la macchina è ancora “altro da se”, elemento tecnologico da comandare, guidare, condurre, dirigere, qualcosa di esterno al nostro corpo, che ancora pensa di poterne indirizzare le traiettorie della Storia.

Corpi solitari con la macchina.

gravityCos’altro è Sandra Bullock in Gravity, al netto della presenza del “fantasma” Clooney, nello spazio profondo “dove nessuno può sentirti urlare”?  Un corpo senza gravità in balia della disfunzione (e della smaterializzazione in mille frammenti) delle macchine. Macchine/case, da cui entrare per proteggersi o fuggire, ma da cui uscire prima che diventino luogo tombale. Macchine per ascoltare “inutilmente” la presenza dell’umano in lontananza, che parla un’altra lingua e non può dirci nulla di comprensibile. Mentre per le macchine ci sta sempre un qualche “libretto d’istruzioni” che ci può permettere di capirle e venirne a capo. Per gli umani, ancora no. Lo spazio diventa il cimitero delle macchine e l’inferno per l’unico corpo supersite ancora vivo. Solitudini. Senza un’ombra di futuro.

Per questo tornato sulla terra, dalla guerra con gli altri elementi della vita aria, acqua e fuoco, il corpo della Bullock non sembra quasi più umano. Striscia, come un rettile, non è più lo stesso. Il mondo sembra aver bisogno di altri corpi….

Corpi solitari, con la macchina.

LOCKE TOM HARDYQuasi la perversione del cinema di questi tempi, chiudere i corpi negli spazi (Polanski, negli ultimi film), “bloccati” dentro un set obbligato. Come Locke, che si diverte a chiudere il corpaccione ingombrante di Tom Hardy (che trova nello spazio la sua realizzazione attoriale), dentro un’automobile, in viaggio solitario verso una “nascita” non certo desiderata, ma che pure ha bisogno di scelte morali coraggiose, a costo di perdere tutto. Un uomo in macchina e il suo telefono, con il “mondo” che entra attraverso le sole voci (come le voci incomprensibili di Gravity, o la voce complice di Her, le voci stanno sostituendosi al corpo, nel cinema…). Non c’è respiro in questo viaggio verso l’ospedale della sua “notte brava”, perché il lavoro, la famiglia, le responsabilità della vita incombono con una frequenza cardiopatica. Il corpo di Ivan Locke è, quindi, bloccato, chiuso nell’abitacolo della sua autovettura, mentre il mondo attorno è fatto di sole luci, case ed auto luminescenti che segnano il territorio ma sono del tutto astratti, lo spazio/autostrada è il luogo contenitore, linea di non ritorno, perché un bambino sta per nascere, un altro uomo, appunto.

Cinema del passato, il Novecento. Che ancora combatte contro il mondo ormai cambiato, che non gli appartiene più. Il mondo è di Her, ormai.

Corpi solitari con la macchina.

TIRUn camionista, ma non da sempre, uno che ha fatto questa scelta perché non ce la faceva più a vivere con i soldi di un “normale stipendio”. Solitario, ma dentro un mondo di solidarietà/opposizione che è quello dei TIR, involucri enormi del mondo/merce, mentre la voce della donna al telefono ci ricorda che “non possiamo essere soli”.

Non possiamo.

Anche se ci perdiamo nell’Oceano.

Corpi solitari con la macchina.

Ma la macchina, si sa, si rompe. Il disastro tecnologico è sempre lì a ricordarci che siamo “natura”.

all-is-lost-robert-redford640Con un percorso simile alla protagonista di Gravity, il nostro uomo di All is Lost, si è perso nello spazio orizzontale del mare, la sua macchina lo ha tradito e deve trovare da se le risorse per sopravvivere alla tragedia. Perché è lì su quella barca, da solo? Dove era diretto? Quali lutti, separazioni, dolori si porta dietro quest’uomo ormai anziano, che decide di affrontare (o è costretto?) il mare in perfetta solitudine? Non lo sappiamo. A stento di lui sentiamo la voce, nel suo tentativo di parlare a una radio che non funziona più. E allora quando la macchina si rompe e dobbiamo abbandonarla non resta che trovare gli strumenti della tecnologia precedente. Un salto indietro. Come se passassimo dall’era delle reti all’invenzione della stampa, o ancora più dietro a quella della scrittura. Un salto antropologico al contrario, per reinventare l’umano. Ma non è possibile. L’uomo del Novecento sembra destinato ad essere l’ultimo umano possibile, prima della “grande mutazione”.

Da elemento nato per la comunità (la famiglia e il territorio) a individuo disperso nelle comunicazioni virtuali delle reti. Non sappiamo più chi vive al nostro fianco, lo ignoriamo, siamo perfetti sconosciuti. Parliamo con l’altro mondo, l’amico lontano o la “macchina che sente”.

i.1.under-the-skin-scarlett-johansonCosa ci è rimasto ancora di umano sotto la nostra pelle? Forse davvero meritiamo di finire inghiottiti nel gorgo scuro dove la Johannson aliena di Under the Skin porta i corpi umani da catturare e prendere con sé. Nel film forse più oscuro dell’anno, un corpo in fattezze simil umane (mai visto il corpo della Johannson così inquietante nelle sue fattezze, quasi irreali, astratte, come un corpo fatto di pezzi di altri corpi), che sembra nutrirsi della materia umana, si trova ad implodere nel suo stesso “travestimento”. L’alieno (quasi) diventa umano e impazzisce (dov’è il mio sesso?) proprio mentre l’umano è ormai sempre più alienato. I corpi esplodono. Resta solo la voce.

Quasi un fischio, in lontananza, che sembra dirci che il nostro tempo è superato. Pochi anni ancora e i post-umani del XXI secolo ci trasformeranno soltanto in un lontano ricordo….

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