Blog SOLDOUT – L’epica dei facciadicane

L’ho divorato come non accadeva da anni ad un romanzo. Sorpreso, solo dopo averlo comprato, di un incrocio di coincidenze nel micidiale caldo dell’estate romana: 70 anni dalla fine della Seconda guerra mondiale (WWII) e un viaggio in Giappone durante l’anniversario di Nagasaki e Hiroshima. Come se quel lontano conflitto avesse deciso di bussare alla mia porta. Il libro in questione e’ ‘The Big Red One’ (Il grande uno rosso – Elliot edizioni) di Samuel Fuller pubblicato per la prima volta nel 1980 ma scritto lungo diversi decenni. Avevo visto l’omonimo film, adattato e girato sempre da Fuller nel 1980 come altre opere del regista (Ho ucciso Jess il banditoCorea in fiammeL’urlo della battagliaIl corridoio della pauraIl bacio nudo, White dog) nato nel 1911 a Worcester e morto a Hollywood il 30 ottobre del 1997.  Conoscevo la sua storia, il mondo visionario di cui è stato protagonista e il cinema che gli è debitore e a cui ha cercato di dare qualcosa nella parte finale della carriera. Amato da Spielberg, Jarmush, Kaurismaki e Wenders. Ma non avevo mai letto la sua più grande fatica (ha scritto una decina di opere) ‘The Big Red One’ basato sugli anni trascorsi nella Prima divisione di fanteria dell’esercito americano durante la WWII.

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La guerra di Fuller è dura, feroce e crudele. I facciadicane, come ribattezza i soldati americani,

samuel-fuller-leeMarvin muoiono e uccidono con un realismo asciutto e consapevole. Il ragazzo si arruola dopo Pearl Harbor come tanti coetanei ed è assegnato alla prima divisione di fanteria. Quelli che fanno il lavoro sporco. Nord Africa, Sicilia, Normandia e poi la Germania. Fuller è lì in prima linea. E lo sono anche i protagonisti del romanzo, ‘quattro cavalieri’ guidati da un indomabile sergente senza nome. Ripercorrendo le battaglie, gli scontri e le violenze, l’epica di questi facciadicane è la forza dirompente del romanzo, oltre 560 pagine che non cedono mai alla facile retorica militarista. A Fuller non interessa l’eroismo alla John Wayne ma la sofferenza e la solitudine del soldato di fronte alla morte. Lo specchio del tempo, è inevitabile fare paragoni tra la pellicola e il romanzo, rende merito alla forza di una scrittura che non tradisce mai. A ricordare, dopo 70 anni ma potranno essere anche 100, la feroce violenza e crudeltà di ogni conflitto. E’ vero, è un classico della letteratura di guerra, come rivendicano molti osservatori, ma rileggerlo oggi davanti alle immagini delle famiglie in fuga dalla Siria e del piccolo Aylan sdraiato sulla spiaggia è uno sconvolgente e orribile déjà-vu.

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