Blog VISIONI – Tonino De Bernardi: vertigine di mondi distanti

Lo sappiamo: Tonino De Bernardi fa cinema come respira. Se c’è un autore che lascia “lievitare” la sua vita attraverso il cinema come fosse pane, questo è Tonino De Bernardi! Dolcemente intransigente, semplice nella sua apprensione per la vita che deve filmare senza tregua, tenace nel suo stare nel cinema marginalmente, lontano da qualsiasi industria dell’immaginario tanto quanto vicino a un’indipendenza che non è mai “underground”, non è approccio intellettualistico, né tanto meno espressione d’Arte.

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Pochi giorni fa Tonino è stato dalle parti di Taranto (a Massafra, per la precisione, invitato dall’Associazione Ambiente H) ad accompagnare Pane / Piazza delle Camelie, un suo lavoro del 2008 col quale era tornato (con mia grande gioia) al Torino Film Festival. Un opera a doppio scenario: un paesino sulle montagne della Toscana, Gorgiti, e la periferia romana di Centocelle. Ma la giustapposizione sta solo nella meccanica del montaggio narrativo, che alterna i due “spazi”, i due film, le rispettive (non) storie che racconta: da una parte Carlo e Grazia, panificatori per tradizione familiare, che impastano e infornano il loro pane, di notte, filmati con dedizione dalla telecamera di Tonino De Bernardi; dall’altra i giovani di Centocelle che attraversano le traiettorie esistenziali e urbane muovendosi come tutti i personaggi di Tonino, deambulando in cerca di se stessi e della propria storia, oggetti d’amore e d’amare nella loro giovinezza, nel loro romantico essere appassionate

Avevo chiesto a Tonino di rispondere a qualche domanda sul film (e su di lui, sulla sua vitacinema) per introdurre l’epifania tarantina del suo cinema. Le sue risposte sono, come sempre, attraversamenti del suo pensiero che filma, e mi piace (ri)proporle qui per non lasciarle cadere nel silenzio: al di là della loro originaria destinazione (in realtà immancabilmente mancata) sul quotidiano tarantino… E al di là della loro “inattualità” (Tonino nel frattempo ha filmato e mostrato altro, e altro ancora sta filmando, tra Salgari e la Francia e la Val Susa No Tav…). A futura memoria di un film dal passato e dal presente.

Allora, Tonino, un film sul pane, sul panificare… E’ un po’ un film sulla vita, come sempre del resto.

PANE (Toscana 2006) ha iniziato dichiaratamente un ciclo di miei film sulle cose primarie, gli “elementi” (parole?) base e i mestieri (il lavoro delle mani). E ho anche fatto PANE NERO in Lettonia fuori di Riga. ACQUA, CARNE, sono per ora, da qualche anno, gli altri. Si tratta di una serie (che non è serie TV) di film ciclici (senza fine), che potrebbe essere come IL MESTIERE DI VIVERE composto appunto di diverse parti, OLIO, VINO, MEMORIA, CARCERE, BARBIERE, SARTO-SARTA, LEGNA. E la parola PANE può diventare PENA. E quando giravo MEDEE MIRACLE, pensavo appunto che Medea venisse da un paese come quello di PANE che però non si vede, ma c’è.

Colpisce che tu abbia voluto raccontare il gesto del panificare come un atto antico, colto in una sacralità che evidentemente è cosa ormai rara.

Penso che oggi sia essenziale ricercare e ritrovare tutto quello che è legato a un gesto-atto antico. Solo così possiamo intravedere una speranza di salvezza. Si tratta di trovare l’anello mancante che nella nostra corsa si è spezzato.

Non è certo la prima volta che nel tuo cinema il cibo, il cucinare hanno una loro centralità.

Ecco i primi titoli miei che mi vengono in mente (tralasciando, come sempre, il mio periodo Underground…): MACELLO in PICCOLI ORRORI (1994), TUTTO QUELLO CHE HAI e LA VENA IMPERFETTA (1978), SAMUTSANKO (2000) e il pesce della Thailandia, il pane ne LA STRADA NEL BOSCO (2001) ecc. fino a ED E’COSI’. CIRCA. PIU’O MENO (2011) .

Il film racconta due mondi distanti: quello dei giovani che vivono ai margini della città e quello dei vecchi che resistono ai margini del mondo.

Più vivo e più mi sembra che il nostro presente sia fatto di due (e più) mondi distanti, contrapposti tra loro. E il fatto di conoscerli e comprenderli-viverli entrambi provoca in me come un senso di vertigine. Però entrambi stanno fuori, ai margini, e questo è quello che li accomuna e me li fa sentire anche miei propri. È la partecipazione, comunque, la realtà della vita che continua.

E’ anche un film di tempi diversi, di ritmi contrapposti: la ritualità paziente del panificare, la passionalità irruente delle esistenze dei giovani.

Dici bene, è proprio così; io ho cercato questo. Ogni “mondo” ha i suoi tempi e ritmi. Molto giusto parlare di ritualità unita alla pazienza e alla ripetitività nel quotidiano che sono propri del panificare. E ovviamente i giovani non si adattano a questo, vogliono correre ed hanno ragione; è il loro corpo stesso che sente le passioni e guarda in avanti e ha bisogno di correre. Ma allora? Come conciliare? Non si concilia. E il presente vive nelle tensioni. Il mio papà è morto a 54 anni, io ne avevo 25, era un momento che non ci capivamo (io dicevo che lui non mi capiva); ci sto ancora male ora, dopo tanto tempo, e non ci posso più far nulla.

I giovani sono anche quelli che vivono il “romanzo”: figure che si seguono, si cercano, si scontrano… L’amore…

I giovani hanno tempo di vivere l’amore, di tessere il romanzo, sempre sul punto di perdere e di perdersi; è la loro vita. La gente “matura” si afferra, si attacca a quello che ha trovato negli anni o che gli hanno lasciato (in eredità più o meno volontaria); i giovani rifiutano di avere un’eredità, cercano e hanno bisogno di sperimentare il nuovo. Ma questo porta anche al dramma. Diciamo che i giovani trovano la forza di vivere direttamente sulla loro pelle dramma e disperazione. Non hanno nulla altro che la loro pelle. E questo è grande ma anche terribilmente rischioso.

Questo è anche un film che lavora nella coincidenza tra la narrazione di finzione e la narrazione documentaria (tu del resto rifiuti la contrapposizione tra fiction e documentario)…

Diciamo che il mondo cerca sempre come prima cosa una definizione di quello che ha di fronte, perché vuole capire subito di cosa si tratta e non vuole correr troppi rischi con qualcosa che non sia ben definito. E allora nel cinema si usa distinguere tra documentario e finzione. Io non accetto questo, dico che si tratta semplicemente di cinema e basta. Così come non mi va più di essere definito cinema underground, mi piacerebbe si dicesse del mio cinema che si tratta di qualcosa che non appartiene a nessuna etichetta. Comunque si dica, d’altra parte, dimostra pur sempre che esisti.

Tu sei uno dei registi che più di tanti altri ha incarnato la continuità di un cinema italiano radicalmente differente, tenacemente indipendente. Come ti senti a portare questa bandiera?

Mi sento a disagio, perché è difficile nella “durata”… È sempre duro dover vivere e sostenere la propria “differenza”, perché sei spesso solo. Eppure io sono così (circa… più o meno…). Spesso penso di essere matto, poi però mi dico che almeno sono un pazzo “positivo” e non distruttivo o auto-distruttivo. Rivendico la mia non-appartenenza. E questo lo posso gridare ad alta voce. Io non sono per il protagonismo, anche se nella tensione verso il cinema mi scopro idealmente titanico e almeno (ma non so nemmeno questo, anzi… questo totalmente non so) protagonista (burattino…) della mia vita. E così per lo più il mio cinema, che è corale o che vorrei popolato di tanti protagonisti; e da qui derivano alcune delle mie contraddizioni, ma il contraddirsi è sempre salutare quando appunto non tende alla morte, ma cerca la vita e vi si perde. Oggi io faccio PIU’CHE MAI cinema di strada (per disperazione), perché voglio e devo portare (AVANT LE DELUGE DE LA FIN) la mia personale testimonianza, di ME, di NOI ORA. Continuerò a fare cinema per conto mio (underground?), qui sotto dove la luce non arriva (se non quella che mi sta dentro, ci spero…) Finché dura… Durerà? finché ho fiato e forza…

 

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