Blue Bayou, di Justin Chon

Un melò imbolsito ed artificioso che diventa un pamphlet politico senz’anima, troppo impaurito di sbagliare, di deviare dal seminato, per parlare davvero al suo pubblico

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Al quarto lungometraggio, Justin Chon insegue, forse, l’opera dell’affermazione artistica. Blue Bayou è il film che prova a rispondere a questa necessità, unendo l’impegno politico al desiderio del regista di mostrare la sua versatilità di narratore. È, in fondo, il suo personale one man show, una riflessione sul rapporto tra l’America e lo straniero, che il regista scrive, dirige e interpreta nel ruolo di Antonio LeBlanc, un uomo di origine coreana adottato e cresciuto in Louisiana, che dopo un episodio di police brutality rischia la deportazione.

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Blue Bayou dovrebbe essere il passaporto di Justin Chon verso il cinema che conta, eppure qualcosa non torna. La regia è in effetti ondivaga, interessata a cercare il perfetto prodotto da Sundance e a considerare la militanza un’occasione per fare facile presa sul pubblico, più che desiderosa di portare l’attenzione su alcune delle più profonde ambiguità dell’America contemporanea. Non è un caso, forse, che il protagonista sia un’entità sintetica, modellata tanto da interviste, ricerche, materiali raccolti da Chon negli ultimi quattro anni, quanto da spunti cercati ad arte nel tentativo di amplificare l’impatto emotivo del personaggio sullo spettatore. Con il tempo Blue Bayou diviene un prodotto di maniera, che solo apparentemente esplora le sfaccettature del contesto che osserva, ma che in realtà rimane al sicuro nelle poche certezze formali a cui sceglie di attenersi. Chon svuota l’indie americano di qualsiasi velleità autoriale alla ricerca, forse, degli ingredienti di una sorta di Chanfrance Style fatto di fotografia ricercata, sequenze oniriche e litigi domestici, svelando, tuttavia, la natura artificiosa e imbolsita del film, il cui racconto procede per picchi emotivi più che per logica e che solo a tratti pare esplorare strade che possano rileggere in maniera efficace il genere o lo spazio tematico in cui si muove. Blue Bayou pare dapprima voler interrogare il complesso rapporto del protagonista con la sua patria d’origine, poi sembra organizzare una sorta di rilettura del contesto multiculturale di New Orleans attraverso lo sguardo infantile di Jesse, la figliastra del protagonista, ma poi finisce lentamente fagocitato dalla presenza ingombrante dello stesso Chon, un buco nero che impedisce qualsiasi deviazione dalla norma.

Blue Bayou

Nulla c’è al di fuori del suo sguardo, nulla esiste se non ciò che egli vive e subisce e non è un caso, forse, che la stessa Alicia Vikander sia ridotta a mero personaggio funzione e debba sgomitare per ritagliarsi lo spazio da protagonista in un’inattesa sequenza musicale, forse l’unico momento in cui emerge prepotentemente nello spazio del film. Lo scollamento tra la realtà e rappresentazione si fa sempre più profondo e Antonio assomma in sé le tribolazioni di migliaia di invisibili come un cristologico messia di cartapesta, irrealistico idolo che racconta molto del passo artificioso con cui la regia ha scelto di affrontare la dimensione militante del racconto.

Justin Chon ha forse ottenuto il personaggio esemplare che cercava, ma l’ha reso protagonista di un pamphlet politico senz’anima, in cui la paura di sbagliare è più forte del desiderio di parlare davvero al pubblico. E allora quella di Blue Bayou è la conquista dell’inutile, quella portata a termine da un film formalmente ineccepibile che però non riesce praticamente mai ad essere davvero popolare, davvero coinvolgente.

 

Titolo originale: id.
Regia: Justin Chon
Interpreti: Justin Chon, Alicia Vikander, Mark O’Brien, Pham Lin Dan, Emory Cohen
Distribuzione: Universal Pictures
Durata: 119′
Origine: USA, 2021

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
2

Il voto al film è a cura di Simone Emiliani

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