Blue Steel, di Kathryn Bigelow

Oggi alle 22:45 su La 7 il thriller noir del 1990 di Kathryn Bigelow, con Jamie Lee Curtis. Lo ricordiamo dal nostro libro “Kathryn Bigelow – Lo sguardo dentro” del 1997.

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C'è un'icona, un'immagine ricorrente, forte e ripetitiva in Blue Steel. Un braccio teso, con all'estremità due mani sovrapposte che tengono ben stretta e puntata una pistola. Non è un semplice meccanismo dell'azione da thriller. Neppure un casuale ripetersi di gesti, atti, movimenti, in un film dove l'oggetto 'rivoltella' appare quasi un elemento centrale, narrativo. No, in questo gesto 'innaturale' (sovrapporre le due mani in avanti non è un atto naturale del colpire, né del proteggersi, ma è solo una 'tecnica' resa necessaria dall'uso della pistola, nessun altro oggetto di offesa o difesa richiede una simile posizione) sta un po' tutto il film. Il suo ergere l'oggetto a prosecuzione del corpo. Il suo ergere il corpo a prosecuzione dell'oggetto. Il suo mettere in scena un atto, il puntare qualcosa contro qualcuno, che è come un momento di fusione, quasi un gioco, una piccola perversione, al confine tra l'odio e l'amore.

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Ma sin dall'inizio Blue Steel fa della pistola l'oggetto del contendere. Oggetto metallico e riflettente, proprio come il 'distintivo' da agente, entrambi elementi 'freddi', d'acciaio, con i riflessi blu come le notti al neon di New York.  L'apertura è, in realtà, una falsa partenza (elemento che si ripeterà anche in Strange Days, con quell'inizio-squid in cui la soggettività che 'viviamo' è quella di un altro, non del protagonista del film): l'agente Megan Turner irrompe in una stanza, un uomo tiene sotto la minaccia della pistola una donna. L'agente spara e uccide l'uomo, ma la donna, sua complice, risponde al fuoco. Stop. E' solo un'esercitazione. E la prova dell'agente Turner non è proprio perfettamente riuscita. "Fuori da questa scuola – gli suggerisce l'istruttore – dovrai avere gli occhi anche dietro la testa". Prima frase chiave del film, che indica, come tutto il cinema della Bigelow, nello sguardo, nella moltiplicazione dei punti di vista, delle prospettive di realtà, nel vedere oltre, la direzione su cui operare le modificazioni ai nostri corpi già (quasi) cyborg.


Megan ottiene comunque l'ammissione, ma alla cerimonia del giuramento, sappiamo subito alcune cose fondamentali: non ci sono i genitori (il padre decisamente contrario, quando la vedrà dirà, con disprezzo "mia figlia è diventata uno sbirro"), c'è invece la sua amica del cuore Tracy e, soprattutto, non c'è alcun uomo. Perchè quello che emerge immediatamente sin dalle prime immagini è proprio il carattere 'celibe' del personaggio di Megan (e usiamo qui non casualmente l'equivalente maschile di 'nubile'), tratto dominante che la legherà all'altra macchina celibe del film, il suo antagonista alter-ego Eugene.


Megan è, in definitiva, un maschiaccio, pur nascosto sotto il corpo e i tratti piacevoli di Jamie Lee Curtis. Siamo quasi in biografia bigelowiana, con Kathryn che racconta: "Ero un maschiaccio, ma sempre molto sola. Penso che avesse a che fare con l'essere alta due metri e mezzo. Ci sono nata con quest'altezza! Mi sentivo socialmente esclusa e diventavo timida. Ho imparato a osservare". 


Megan è sola, e gli sforzi di Tracy per farle conoscere qualche uomo naufragano ogni volta, da un lato di fronte alla durezza e chiusura caratteriale di Megan, dall'altro dal suo stesso ruolo/lavoro di poliziotto, che caratterizzandola come 'maschio' ne allontana ogni possibile pretendente, come l'amico di Tracy quasi "messo in fuga'' al party. Megan è talmente 'sola' che nel suo primo giorno di pattuglia, per un attimo, persino il suo collega l'abbandona, sia pure per andare alla toilette. Ma in quell'attimo avviene quello che non avrebbe dovuto accadere. Megan è troppo sola per occuparsi di se stessa, o per vivere tranquillamente la sua vita. Come Kathryn, ha "imparato ad osservare". Ed è per questo che, benché lontana, riesce a "vedere oltre", fino al negozio dall'altra parte della strada, dove un ladruncolo di periferia sta minacciando il cassiere di un supermarket con una pistola. E' un attimo. Megan, la giovane recluta non pensa di avvisare il suo collega più esperto. Di far chiamare altri agenti. No. Interviene lei e basta. Arriva fin dentro il supermarket e intima al rapinatore di gettare l'arma. Alla reazione di questi risponde sparandogli addosso un caricatore intero. Perchè?

Se lo chiederanno alla polizia, soprattutto quando scoprono che il rapinatore non aveva alcuna pistola (in realtà sottratta dal cliente/Eugene, che qui inizia la sua folle storia d'imitazione). Ma la risposta la darà Megan stessa, quando racconterà che, sin da piccola, le piaceva l'idea di sparare alle persone. Piccola deviazione, quasi una conseguenza all'uso dell'arma, strumento che di per sé è atto a uccidere. Megan sperimenta nella sua solitudine il desiderio dell'altro, e sparare è una reazione 'lisergica', quasi esistenziale al suo desiderio/bisogno di affetti.  Megan è punita, viene sospesa. Costretta a interrompere subito questa sua "aggressività primaria", che l'ha spinta ad uccidere al suo primo turno di lavoro.


Ma qui compare l'altro elemento della storia, Eugene Hunt (e qui solo una piccola notazione sui loro rispettivi nomi, anzi cognomi: Eugene è Hunt, che non è cacciatore  hunter -, bensì "partita di caccia", "terreno di caccia", termine che già anticipa i temi dello scontro tra i due; Megan è Turner, cioè tornitore; ossia "addetto alla lavorazione del tornio", che è quella "macchina utensile per la riduzione di pezzi meccanici alla forma o spessore voluto" – la pistola? -: sono casuali i due cognomi? O già rappresentano, sottilmente e in maniera quasi invisibile, il film?). Eugene è lì, per caso, nel supermarket. E' un cliente come tanti, e, come gli altri, si getta in terra alle minacce del rapinatore. Ma – a differenza degli altri – quando vede a fianco a sé  la pistola caduta al malvivente, non resiste alla tentazione di prenderla, di "farla sua". Ma non perchè attratto dalla "potenza" che la pistola in sé nasconde. Ma invece perchè affascinato dalla potenza, dalla carica distruttiva, dalla sicurezza apparente messa in moto dalla reazione esplosiva di Megan. E' di Megan che Eugene si appropria, non di un'arma. Prendendo l'arma, costringendo Megan alla solitudine anche sul lavoro, Eugene la prende, in qualche modo con sé. Ma fa di più. Abbagliato dalla luce di quella apparizione 'di fuoco' di Megan, egli comincia ad usare quell'arma rubata, uccidendo per strada passanti innocenti, non prima però di aver scritto il nome di Megan sulle pallottole e di aver 'guardato in faccia' le sue vittime. Perchè? Eugene è un pazzo? Certo non è uno 'normale', o forse sì. E' un agente di borsa, un 'broker'. E' curioso come anche lui sia un 'agente'. Magari è un meccanismo della nostra lingua, eppure non sembra casuale il fatto che sia il ruolo di Megan, agente di polizia, che quello di Eugene, agente di borsa, sono definiti dall'atto dell'agire. Per lei agire è qualcosa di materiale, lui 'agisce' con l'immateriale mondo del denaro. Per lui agire è vendere e comprare 'azioni'. Per lei è fare 'azioni'. Materiale e immateriale. Il corpo in azione, il denaro, il valore astratto della finanza. Eugene è per forza un 'broker', come lo era, in un film che solo apparentemente non c'entra nulla, Mickey Rourke in Nove settimane e mezzo, altro film dove corpi, azione e solitudini interagivano nel mondo 'astratto' della metropoli.


Eugene e Megan. Due solitudini dentro la materia 'urbana'. E' "naturale" che s'incontrino, è naturale che si tocchino. Eugene passa direttamente all'opera di seduzione di Megan. Ma egli non sta recitando una finzione. Egli realmente 'seduce' la poliziotta. Egli realmente ne è, irresistibilmente, attratto. Ma l'attrazione 'fatale' di Eugene è per un corpo, quello di Megan, che la pistola ha reso più 'metallico', più attraente, più 'potente', incredibilmente più erotico. Dove il desiderio, la logica impotente della penetrazione simbolica, fa da "transfert" al bisogno sessuale vero e proprio. Eugene trasferisce sull'oggetto metallico il suo desiderio. Penetra, letteralmente, la pistola immettendovi i proiettili uno ad uno nel caricatore in una sequenza terribilmente 'sensuale'. E infine penetra nei corpi delle persone con quei proiettili, non a caso 'marchiati' col nome di Megan: è Megan che 'penetra' in quei corpi, in un gioco di rovesciamento di ruolo e delirio 'pornografico' avvincente e spiazzante. La storia, il "duello" è tra loro due, gli altri sono solo strumenti, o oggetti d'intralcio, o di vendetta.

Megan fa l'amore con il collega Nick, nella sua stanza, mentre Eugene è nel suo bagno che li ascolta/osserva: chissà perchè non riusciamo a distinguere ed è come se Megan facesse l'amore con Eugene. Eugene si realizza, si placa con l'uccisione, con il sangue addosso, ma non appare come un qualcosa di innato: egli si è 'trasformato' alla vista della carica esplosiva e omicida di Megan nel supermarket. E' Megan che ha creato Eugene.  E, per forza, è lei che deve distruggerlo. E il duello durerà fino alla fine, ma sarà una sorta di suicidio: Megan, uccidendo Eugene, dovrà strappare alla vita una parte di sé stessa, uccidere una parte di sé, strapparsi un pezzo del/dal proprio corpo, esattamente come Eugene si strappa con le mani, urlando (dolore e/o godimento) la pallottola con cui Megan lo ha 'penetrato' nello scontro a fuoco.


Tanti sono i frammenti, gli squarci che la Bigelow mette in scena  nel suo film forse più 'intimista', e ovviamente meno amato ed apprezzato dalla critica (e sfortunato, poiché a causa del fallimento della Vestron Pictures il film è rimasto in naftalina per due anni, rispolverato solo dopo il successo di Point Break). Soprattutto il gioco sui dettagli, dal corpo in vestizione della Curtis (non è forse altrettanto 'erotico' dello spogliarello della Basinger del già citato film di Adrian Lyne?); sulla divisa come "corpo che contiene un altro corpo"; sullo stemma di agente, metallo lucido e riflettente a suo modo alter-ego dell'altro oggetto metallico in dotazione, la pistola; sulla solitudine di Megan, raccontata con una delicatezza e una profondità dai brevi dialoghi con i suoi genitori, con il collega Nick, con lo stesso Eugene; e, infine, su quella "volontà di potenza" che, insieme al suicidio come duello (per questo tema si veda l'articolo di Gualtiero de Marinis su "Cineforum" n. 317), costituisce l'altro elemento nietzschiano del film.  La potenza come aggressività, come carica distruttiva, ma anche come affermazione di sé. Come sostituzione dei rapporti umani. Come alternativa alla solitudine. La distruzione dei corpi, la deflagrazione delle vite, contro la propria autodeflagrazione, contro il proprio corpo reso 'isola' da un mare di elementi contrari (la metropoli, la famiglia violenta e insensibile, storie andate male, ecc…).


Eppure in questo contesto così chiuso, soffocante, senza via di scampo, la Bigelow ci caccia dentro degli attimi di sublime forza emozionale, presente in tutto il suo cinema. Eugene e Megan a letto, lottano dopo che l'uomo ha sparato a Nick. Lottano, urlano, si sbracciano, si "abbracciano".  Un abbraccio pieno d'amore (e di odio) come in Near Dark, come in Point Break (il tuffo nel cielo di Keanu Reeves che si stringe a Patrick Swayze in volo), come, soprattutto, in Strange Days (luogo dove tutto il suo cinema si stringe in un tenero, impossibile abbraccio finale).


 

BLUE STEEL – Bersaglio mortale


 


Blue Steel.  REGIA: Kathryn Bigelow   SOGGETTO e SCENEGGIATURA:  Kathryn Bigelow e Eric Red  FOTOGRAFIA: Amir Mokri  SCENOGRAFIA: Tony Corbett  COSTUMI:  Richard Shissler  MONTAGGIO: Lee Percy   SUONO: Thomas Brandau  MUSICHE: Brad Fiedel  EFFETTI SPECIALI: Steve Kirshoff , Wilfred Caban INTERPRETI:  Jamie Lee Curtis (MEGAN TURNER), Ron Silver (EUGENE HUNT), Clancy Brown (NICK MANN), Elizabeth Pena (TRACY), Louise Fletcher (SHIRLEY TURNER),  Philip Bosco (FRANK TURNER), Kevin Dunn (VICE COMMISSARIO STANLEY HOYT), Richard Jenkins (AVVOCATO MEL DAWSON),  Mike Hodge (PREFETTO DI POLIZIA), Skipp Lynch (ISTRUTTORE). PRODUZIONE:  Edward R. Pressman e Oliver Stone per Lightning Pictures. PRODUTTORE ESECUTIVO: Lawrence Kasanoff  COPRODUTTORE: Michael Rauch DISTRIBUZIONE: Artisti Associati. USA, 1990. Colore.  DURATA: 101' .


 


Megan Turner è una giovane agente della polizia di New York che, pur con qualche difficoltà, riesce a superare l'esame di ammissione. Alla sua cerimonia di giuramento però entrambi i genitori mancheranno (soprattutto il padre non accetta proprio l'idea di una figlia poliziotta), e c'è soltanto la sua cara amica Tracy. Alla sua prima pattuglia notturna, Megan vede in un supermarket un rapinatore che sta puntando la pistola contro il cassiere. Non ci pensa su due volte e interviene, gli intima di gettare l'arma e, alla reazione di questi, gli spara uccidendolo. Un uomo, cliente del supermarket, sdraiato in terra, ruba l'arma del rapinatore. Per Megan la situazione diviene difficile: l'accusa è di aver sparato ad un uomo disarmato. Viene sospesa per un po', e proprio in quei giorni di 'libertà' incontra Eugene Hunt, operatore in borsa, che in realtà è proprio l'uomo che le aveva sottratto la pistola. Egli inizia ora con lei un gioco sadico: da un lato la seduce, invitandola a cena e ad uscire con lui, dall'altro uccide gente qualsiasi proprio con la pistola sottratta e con proiettili firmati con il nome di Megan.  Ma l'uomo non intende mantenere separate queste due vite, e il suo gioco prosegue con lo 'svelarsi' a Megan, che, impaurita, lo fa arrestare. Ma egli ha un buon avvocato che, in mancanza di alcuna prova tangibile a carico del suo cliente, lo fa subito rilasciare. Così Eugene continuerà il suo gioco di morte, terrorizzando Megan prima uccidendogli l'amica Tracy, poi entrando in casa dei genitori, infine ferendo il collega e amante di Megan, Nick. La lotta tra Eugene e Megan attraverserà tutta la città, fino all'ultimo, definitivo scontro a fuoco.

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