Bohemian Rhapsody, di Bryan Singer
Quella di Freddie era un’urgenza comunicativa dirompente, una forza poderosa difficile, se non impossibile, da ri-produrre. E il biopic soccombe sotto il peso di spinte erosive e contraddittorie.
“Mama, just killed a man/ Put a gun against his head/ Pulled my trigger, now he’s dead/ Mama, life had just begun/ But now I’ve gone and thrown it all away”: è questo il punto in cui la voce potente di Freddie Mercury erompe con veemenza, dopo il fraseggio introduttivo, in quella che è unanimemente considerata la canzone emblema di una delle rock band leggendarie del Ventesimo secolo. Brano enigmatico, definito non a caso baroque’n’roll per la tessitura stratificata e gli arcani rimandi, frutto interamente dell’estro compositivo di Mercury, Bohemian Rhapsody fornisce appropriatamente il titolo al lungometraggio diretto da Bryan Singer (X-Men – Apocalisse, Il cacciatore di giganti) – poi sostituito in corsa da Dexter Fletcher (Eddie the Eagle – che racconta le vicende dei Queen. O, almeno, una parte di esse: il film si snoda lungo il quindicennio che approda ai trionfali venti minuti di performance al Live Aid del luglio 1985, partendo dai primi passi fatti insieme nel 1970. Quando Farrokh Bulsara ancora non aveva cambiato il nome in Freddie Mercury, Brian May e Roger Taylor suonavano insieme negli Smile (ai quali Bulsara si unisce dopo la defezione del cantante Tim Staffell) e circa un anno prima che al trio si aggiunga “The Other One”, il taciturno bassista John Deacon.
Chiunque ami la voce di Freddie Mercury, come chi scrive, ha vissuto la sua vocalità come compagna importante di vita, in tutte le sue declinazioni: una carezza morbida, dolce, un grido disperato, rabbioso, violento, un impeto sfrenato che si impunta aggressivo su suoni dritti e duri, una supplica straziante e spezzata, o un gioco divertente e divertito, quella di Freddie era un’urgenza comunicativa che esplodeva nell’etere.
Una forza poderosa difficile, se non impossibile, da ri-produrre, eppure sembra piuttosto naturale e prevedibile che la sua figura sia al centro delle linee narrative del film. E così, nonostante l’intenzione (almeno apparente) di rappresentare una storia complessiva e corale, è il personaggio fagocitante del compianto performer, la sua presenza ingombrante, a divorare e dominare la scena. Bohemian Rhapsody sceglie, tra le opzioni possibili, di ripercorrere i primordi, la scalata al successo, i passi falsi e le cadute. Se le incursioni nei making of, tra sperimentazioni sonore e creazione di hit rappresentative, e la rappresentazione del rapporto viscerale con il pubblico durante i leggendari live ritagliano degli spazi godibili all’interno del biopic, il progetto però soccombe sotto il peso di spinte erosive e contraddittorie. Da una parte, infatti, la mancanza di una vera e propria focalizzazione, di un’esplicita entità narrante, si riflette in un approccio registico piuttosto insipido, discontinuo – in buona parte frutto presumibile dei passaggi di mano di cui si diceva sopra – appiattito da una messa in scena che in generale appare ossessionata dalla riproduzione in sovrapposizioni millimetriche e dalla forma della realtà che racconta – una forma esasperata e a tratti esasperante, come quei denti posticci che disturbano l’ottima prova di Rami Malek.
Mercury era estremamente consapevole della propria persona scenica, della portata finzionale del suo Freddie, dello scarto dualistico tra pubblico e privato. Il Freddie del film sfiora appena questo contrasto identitario, aderendo con maggior decisione al personaggio-icona e alla sua realtà superficiale, e fin qui siamo nella norma della scelta stilistica. Ma è a questo punto che avviene lo strano cortocircuito strutturale.
Lo sceneggiatore Anthony McCarten (La teoria del tutto, L’ora più buia) ha ben presente il valore culminante del Live Aid all’interno della trama che disegna, così come il pathos che deve gravitarvi intorno. E in effetti quel concerto all’epoca rappresentò, dopo un’annata di crisi creativa e una pausa che sembrava stesse portando allo scioglimento della band, un momento di rinascita e ricongiungimento, un carico di linfa artistica che regalò al pubblico dei Queen altri sei anni formidabili. Allora perché modificare i tratti della storia, anticipando di due anni la diagnosi di HIV a Mercury? Che senso ha spurgare il racconto con omissioni curiose (le precedenti avventure solistiche degli altri membri del gruppo, il soggiorno di tutta la band a Monaco, il calo di popolarità per via dei concerti del 1984 in Sud Africa)?
Questi cambiamenti manipolativi dell’impianto drammaturgico della narrazione, sono interventi pretestuosi che tradiscono una certa faziosità di prospettiva o, quantomeno, un’inaccuratezza di fondo. Superficialità imperdonabile, se si considera che il progetto produttivo del film – tra polemiche, defezioni, cambi in corsa – si è dispiegato per un decennio, e che May e Taylor figurano come produttori esecutivi. Lungi dall’essere un ritratto santificante di Freddie Mercury, Bohemian Rhapsody tratteggia una trama collodiana, dove lo spauracchio dell’AIDS appare pericolosamente come sorta di punizione finale. Nel forgiare il legno, è andata persa l’anima, l’essenza di una verità, una fantasia, una voragine immaginativa più vera della realtà.
Titolo originale: id.
Regia: Bryan Singer
Interpreti: Rami Malek, Allen Leech, Lucy Boynton, Gwilym Lee, Ben Hardy, Joseph Mazzello, Aidan Gillen
Distribuzione: 20th Century Fox
Durata: 134′
Origine: Gran Bretagna, USA 2018
La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
Il voto al film è a cura di Simone Emiliani