Borg McEnroe, di Janusz Metz

La regia aderisce alla perfezione alla sospensione raggelata del personaggio di Borg. Non dà segni di escandescenze stilistiche, ma si concentra su ogni scena, come se stesse giocando “punto a punto”

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Il 5 luglio 1980… Ero ancora troppo piccolo per ricordare. Avrei rivisto quella finale qualche anno dopo, quando sarebbe arrivata la passione del tennis, ai tempi di Lendl numero uno, di Becker ed Edberg, di McEnroe che ancora attraversava i campi di gioco con la sua follia da sabotatore e la meraviglia assoluta dei suoi colpi. Borg già non c’era più. Ma la sua leggenda era ancora viva, il suo nome aleggiava ovunque. Come se si parlasse, che so, di Napoleone, Giulio Cesare, di Alessandro il Grande. Ricordo il suo ritorno, surreale, agli inizi degli anni ’90, dopo le crisi con la Bertè, i tentati suicidi, i fallimenti imprenditoriali, i casini della vita (non) quotidiana. Altro che uomo di ghiaccio… Con la sua minuscola racchetta di legno si faceva prendere a pallettate dai racchettoni di avversari semisconosciuti, poi definitivamente scomparsi nella nebbia della storia. Quel Borg lì, coi suoi capelli lunghi da eroe greco, era davvero il protagonista di un altro tempo, quello dei Titani, che cedeva il passo all’epoca dei replicanti hi-tech di sintesi e di grafite, dei nuovi sponsor, delle pay-tv. Anche se, in qualche modo, era stato proprio lui a segnare la nuova strada (che poi Lendl avrebbe perfezionato), quella dei campioni costruiti a tavolino, dei robot dalla precisione meccanica, delle botte a due mani (a parte il rovescio di Connors…). E delle emozioni zero. Ma anche questa, in realtà, era una finzione, una costruzione deliberata, magari necessaria per la vittoria (“non pensare”, ripete l’allenatore Lennart Bergelin), ma senza dubbio adatta la facile narrazione dei cronisti impegnati a cantare le gesta . Ed ecco, dunque, il duello perfetto, l’eroe e il villain, il freddo e il caldo. Borg, l’uomo di ghiaccio, tutto controllo e determinazione, idolo delle donne e delle folle, contro McEnroe, il superbrat, l’insolente dal talento eccezionale, l’irascibile e detestato spaccone che manda al diavolo arbitri, pubblico e avversari. Quasi quarant’anni dopo, è ancora un paradigma, che torna alla ribalta in questa coproduzione scandinava affidata alla regia del danese Janus Metz Pedersen.

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borg mcenroe Stellan Skarsgård Tuva NovotnyIl film si concentra sul torneo di Wimbledon del 1980, quello che dovrebbe consegnare Borg alla leggenda nel caso di vittoria, la quinta consecutiva. Di mezzo però c’è l’astro nascente del giovane newyorchese, che a 21 anni cerca la consacrazione definitiva. Ma ancor prima c’è la testa, ci sono i fantasmi personali, le paure sepolte appena sotto le superficie. Tutti quei mostri in grado di curvare le linee e le traiettorie di ogni colpo, di trasformare l’apollinea, perfetta geometria di un campo da tennis in sentieri selvaggi inesplorati, in terreni misteriosi e irti di pericoli. È qui che si gioca gran parte del film di Metz, nella mente e nell’anima di Borg, che è l’assoluto protagonista: la sua mania del controllo, i suoi riti scaramantici, l’insofferenza dei riflettori e il peso della popolarità, la condanna di dover essere il migliore e il dover di tener tutto dentro. Si passa dal passato al presente, come in un palleggio continuo, regolare. Gli inizi a Södertälje (il giovane protagonista è interpretato da Leo Borg, figlio del campione svedese), le promesse, il talento che rischia di essere mandato all’aria dall’irrequietezza della gioventù, l’incontro con Bergelin commissario tecnico della nazionale, che lavora sulla psicologia e l’emotività di Björn. E poi Wimbledon, l’ansia, l’attesa, la solitudine del numero uno, il rispetto e il timore per il giovane McEnroe, solo in apparenza così diverso.

borg mcenroe Shia LaBeouf Sverrir GudnasonLa regia di Metz aderisce alla perfezione, in maniera quasi didascalica, a questa specie di sospensione raggelata del personaggio di Borg. Siamo agli antipodi dell’ossessione bruciante di Rush, che andava fuori giri nella velocità della macchina cinema. Qui non si alza mai il ritmo, non si perde mai il filo. Metz smorza i toni e i colori nel décor degli anni ’70 scandinavi, non dà segni di escandescenze stilistiche, ma si concentra su ogni scena, su ogni dialogo, come se stesse giocando “punto a punto”, come una pentola a pressione, che col suo fischio promette esplosioni che non arrivano mai. A fare il resto è la fisicità trattenuta, perfettamente funzionale, di Sverrir Gudnason, a cui si contrappone naturalmente l’emotività a fior di pelle di Shia LaBeouf, che cerca, per quanto gli è concesso dal tempo, di dare una dimensione piena al suo McEnroe, che sembra un personaggio più abbozzato, più legato alla superficie della versione ufficiale, ma che grazie agli scatti, ai gesti, i silenzi dell’attore, mostra tracce di vita oltre le convenzioni dei you cannot be serious. Alla fine, scolpiti i due “rivali”, ciò che resta da affrontare è il duello. E forse è proprio questo il punto debole di Borg McEnroe, che fatica nella ricostruzione della partita senza, peraltro, osare neanche la scelta del repertorio. Non era facile, anche considerata l’aura mitica del match, ma resta il fatto che Merz sta per lo più sui volti degli interpreti, perdendo i colpi e rinunciando a qualsiasi possibilità spettacolare. Il che, magari, è in linea con l’idea di uno sport che si affronta innanzitutto nella testa e nell’anima. Ma a questo punto, chissà, forse occorreva una scelta di campo più radicale…

Titolo originale: Borg/McEnroe

Regia: Janus Metz

Interpreti: Sverrir Gudnason, Shia LaBeouf, Stellan Skarsgård, Tuva Novotny, Ian Blackman

Dustribuzione: Lucky Red. In associazione con Marys Entertainment/Sky Cinema

Durata: 100′

Origine: Svezia/Danimarca/Finlandia 2017

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