BRASILE 2014 – Il sogno mostruosamente proibito di Garcia Ignazio Barroso detto “U Carcamagnu”

ronaldo

Dopo 3 giorni e 10 ore di lezione, feci la domanda che mi cresceva dentro, o meglio, mi tenevo dentro fin dall’inizio: chi vincerà il mondiale? E irrigidendo il corpo e il viso, il professore Glaucio José Marafon mi diede la risposta che da mesi, penso, lui, e molti altri brasiliani come lui, si era preparato: l’Italia sì, il Brasile no, l’Argentina mai. Perché il Brasile è malato dal 16 luglio 1950

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E irrigidendo il corpo – calvo, pancia sporgente, camicia bianca, jeans blu e orologio sportivo rossonero, un insieme pieno di grazia e sapienza – e il viso – tutto curve, ma preciso, esatto, come un’unica pennellata –, il professore Glaucio José Marafon mi diede la risposta che da mesi, penso, lui, e molti altri brasiliani come lui, si era preparato: l’Italia sì, il Brasile no, l’Argentina mai. Si trovava in quell’aula universitaria per un seminario sull’agricoltura familiare del suo paese, “modello istituzionale tipico della società brasiliana, di specifico carattere territoriale, socio-culturale e produttivo”, diceva la mail di presentazione e richiamo alla presenza (obbligatoria). Dopo 3 giorni e 10 ore di lezione, feci la domanda che mi cresceva dentro, o meglio, mi tenevo dentro fin dalla lettura della padronale e coercitiva convocazione di cui sopra: chi vincerà il mondiale? Tutto qua il mio contatto diretto con 2014 FIFA World Cup Brazil – All in One Rhythm (TM, ovviamente). No, non tutto qua, perché subito dopo essere andato via senza salutare, mi resi conto di aver preso parte ad una modellizzazione del torneo, ad una sua meta-rappresentazione. Perché c’era quello che è il vero segno e sentimento di questo Brasileirão mundial, la schizofrenia: lo stare lì, ad un oceano di distanza, a parlare di un paese che è un continente; delle dissociazioni geografiche, etniche, culturali, religiose, politiche; di un mercato che sembra schizzare via dall’800, con i piccoli agricoltori che lottano metro dopo metro e litro dopo litro con i grandi fazenderi. E in mezzo, prima e dopo, il calcio.

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Di schizofrenia i brasiliani sono malati dal 16 luglio 1950 – e non c’è nemmeno bisogno di scrivere il Suo nome. Ne hanno vinti due di fila nel 1958 e 1962, come solo noi nel Trentennio – e no, non Ventennio; hanno portato a casa la definitiva Coppa Rimet nel 1970 – ancora, contro di noi; hanno 5 titoli – ancora e ancora, uno davanti a noi. Però Ghiggia e Schiaffino non li dimenticheranno mai e tutto sarà rapportato a quel giorno, perché è l’unica, grande e storica nazionale, a non aver mai vinto in casa – Uruguay, Inghilterra, Germania, Argentina, Francia e ancora e ancora e ancora noi, l’abbiamo fatto. Forse il medico della Seleção potrà spiegare loro che si tratta di “ecofobia”, la paura di stare in casa da soli in seguito ad un evento traumatico: l’unica nazionale ad aver vinto in tre diversi continenti, compreso l’inespugnabile fortino europeo, soffre di ecofobia. E quindi si disgrega, e quindi diviene schizofrenica fino a perorare la causa di una squadra amica – l’Italia sì – ma disposta a morire nell’ultima trincea all’ultimo minuto disponibile pur di fermare i vicini – l’Argentina mai – di quella casa che ha il nome maledetto di Maracanaço.

 

E così la CIA dovrebbe prendere davvero in considerazione un piano che preveda la vittoria di Maradona in casa di Pelé, gesto che porterebbe alla destabilizzazione di un intero continente con la sicura e conseguente invasione della pampa da parte dei verdeoro… Ma forse una meta-rappresentazione in vitro di questo scenario da agenzia governativa statunitense è già andata in onda con la seconda partita dei (purtroppo) padroni di casa con l’altra latina Messico, dove i doppelgänger si sono materializzati in campo ancor prima del fischio d’inizio, con quel pianto di Neymar che ha fatto scorrere un brivido lungo la schiena, di cui i brasiliani e tutti noi ancora non sappiamo di che temperatura emotiva sia. Il resto sono immagini in movimento diverso, real time e slow motion, e appunti vergati tra un passaggio e un altro: un Messico che conferma l’indirizzo tecnico-tattico di alcune piccole del mondiale (Croazia, Bosnia, Algeria), linee strette, squadra corta, aggressività sul pallone, contropiede; un Brasile che ha ridotto i numeri 10 a soli due uomini su 23, Neymar e Oscar; le quotazioni dei giocatori che si impennano e crollano di azione in azione, per ora su Ochoa e Guardado e giù Fred e Paulinho; l'anarchist shirt dei messicani, a metà tra Charlie Brown e Pancho Villa; i potenti “burro” ogni volta che Júlio César rinviava.

 

Sui titoli di coda, Thiago Silva e Luiz Gustavo. Come indossano la maglia verdeoro loro, nessuno. Ruoli, corpi e volti d’altri tempi, con l'abbraccio del primo a Javier Hernández dopo un duro fallo e l’interdizione a tutta metà campo del secondo. Altri ruoli, corpi e volti, come l’unica nazionale di cui conoscevo a memoria formazione e tabellino dopo l’Italia di Vittorio Pozzo e l’Olanda dei ’70 – che nomi da cinema e letteratura che schierava, Krol, Neeskens, Cruijff, Rensenbrink, Rep, Johnny Rep! –, il Brasile di una maglia bellissima, da indossare, e solo dopo quella sopra ripetere la filastrocca che è un mantra che ti fa viaggiare indietro fino ad un'epoca e ad un calcio non tuoi: Didi, Vavá, Pelé, Zagalo. Didi, Vavá, Pelé, Zagalo. Didi, Vavá, Pelé, Zagalo. Un mantra da 1.390.810 di lire, come Mike Bongiorno dice a Paolo (Villaggio) Coniglio in Sogni mostruosamente proibiti. Didi, Vavá, Pelé, Zagalo. Un mantra che annulla il singolo brasiliano e lo fa diventare un tifoso solo, la Torcida, dove tutti si fondono e si specchiano, fino a conoscere i nomi dei presenti al settore H della curva sud durante la partita. Anche se si chiama Garcia Ignazio Barroso, detto “U Carcamagnu”, ed è paraguayano, l'unico.

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