Bring Them Down, di Christopher Andrews

Il gioco di prospettive risulta spesso incongruo. Eppure è con tale incontro/scontro di sguardi che riesce a raffigurare la desolazione che alberga nell’Irlanda più agreste. RoFF19. Progressive Cinema


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La sequenza iniziale di Bring Them Down denota una valenza apertamente teorica, tanto che basterebbe osservarla in profondità, per comprendere tutte le istanze (tematiche, narrative e anche linguistiche) su cui l’irlandese Christopher Andrews fonda il suo film di debutto. Qui l’azione prende piede nell’abitacolo di un’automobile in corsa: il guidatore non entra in campo fino al termine della scena, e prima ancora che l’incipit sia suggellato da un atto di violenza incontrollato, i volti della madre del giovane protagonista e della sua fidanzata ci vengono restituiti unicamente attraverso le soggettive del ragazzo o mediante delle inquadrature di reazione. A dominare è un senso di vuoto, il peso di un’assenza che verrà colmata nel momento stesso in cui la donna rivelerà al figlio di voler abbandonare la famiglia a causa dei comportamenti del padre. Una “privazione” a cui Michael reagisce violentemente, al punto che schianterà di proposito la macchina oltre il ciglio della strada, quasi non potesse rispondere a questa sensazione di vacuità se non affogandola nel sangue. Elemento, che insieme al gioco di prospettive in stile Rashōmon, ritornerà nel corso di tutta la narrazione.

A questa cesura narrativa, ne segue una temporale. Dall’incidente sono trascorsi 20 anni, e Michael (Christopher Abbott) si occupa adesso della fattoria di famiglia, oltre che del padre semi-invalido. Un giorno due montoni del suo bestiame vengono prelevati con la forza da Jack (Barry Keoghan), il figlio dell’ex fidanzata del protagonista, sposata adesso con il patriarca della famiglia “rivale” di pastori. E al fine di evitare che altre pecore del suo gregge vadano incontro ad un destino analogo, decide di portarle a valle, ma nel corso della discesa subirà improvvisamente un agguato da parte di ignoti, che porterà ad una parziale sterminazione del suo gregge. Una sottrazione a cui l’uomo non può che rispondere – guarda caso – attraverso un atto vendicativo: proprio perché in Bring Them Down la violenza, così endemica degli spazi del film, sembra sempre generarsi a partire da un’assenza, che Michael – e poi lo stesso Jack – cercherà in ogni modo di neutralizzare.

La coerenza con cui l’opera prima di Andrews porta avanti i suoi discorsi sin da quello sfuggente incipit, non è individuabile solo in questo livello tematico/narrativo, ma si estende anche alle scelte di sguardo sublimate nel corso della narrazione. Se in un primo momento la sortita notturna di cui è stato oggetto Michael viene declinata esclusivamente nel fuori campo, tanto da non entrare nella storia per lunghi tratti di racconto, è nell’istante in cui il protagonista inizia il suo cammino di vendetta che il film stacca sul punto di vista di Jack, rivelandoci le identità di coloro che hanno compiuto l’assalto, e le motivazioni che li hanno portati a decimare il bestiame. Da qui Andrews riprende quel gioco di prospettive accennato nel prologo, e che solamente adesso può essere posto come il crocevia di tutti i sentimenti di rivalsa dei protagonisti di Bring Them Down, nonché di quella elusiva ricerca della catarsi a cui, così strenuamente, tendono.

Mostrando in sequenza eventi sì reciprocamente connessi ma che prendono vita in termini perlopiù autonomi, il regista di Bring Them Down restituisce ai percorsi di Michael e Jack, e ai dissidi che covano al loro interno, uno spessore che forse non avrebbero avuto se fossero stati portati alla luce secondo delle strategie più classiche e lineari: proprio perché i due personaggi, essendo immersi in un contesto socio-ambientale così apertamente microcosmico e periferico, vivono e percepiscono quel medesimo senso di desolazione che alberga in ogni angolo dell’Irlanda più agreste e crepuscolare, e con cui sono costretti ad interfacciarsi nel quotidiano.

E seppur questo incontro/scontro di prospettive non dia mai vita a quella chirurgica orchestrazione di sguardi che ha reso così radicale Gone Girl, né ingeneri nel cuore della storia quel folgorante spirito rivelatorio tipico del film di Fincher (o anche de L’innocenza), è pur vero che l’appiattimento del racconto sullo stesso livello, la necessità cioè di non offrire nulla di nuovo su un evento mostrato da due angolazioni differenti, contribuisce a codificare quel fenomeno di sfasamento che tutti i personaggi/pastori di Bring Them Down vivono. Destinati – sembrerebbe suggerire Andrews – a subire un processo di omologazione identitaria/emotiva, almeno finché restano ancorati agli spazi di questo soffocante microcosmo.

La valutazione del film di Sentieri Selvaggi
3.2
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