Brucia ragazzo brucia. Addio a Fernando Di Leo

Fernando Di leo, morto a Roma all'età di settantun anni, è stato il padre del noir italiano, artefice di uno sguardo anarchico e profondo che fa in mille pezzi ogni tipo di retorica.

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Rai Due, un anno fa circa. In mezzo ai frammenti dispersi di opere amputate, cancellate, sospese in un oblio che è già morte, rifà capolino lo sguardo sornione e profondo di un regista chiamato a rispondere del suo cinema, a raccontare, ricordando la stagione di un cinema libero e irripetibile, lunare e irriconciliato. Si accavallano nel frattempo frame indiavolati, scesi tra noi dagli anni Settanta e riproiettati oggi come in un'agitazione temporale che non ha nome, età, figura. Intanto Fernando Di Leo si sbraccia, agitando le mani, muovendo nervosamente gli occhi, come a disegnare traiettorie oculari che già adocchiano un set, che già configurano nuove geografie urbane di spaesamento. Ma in realtà si sta fermi su se stessi, in preda ad una coazione a ripetere che nega ogni vera azione, continuando a predicare il silenzio. E già perché Di Leo non girava dal 1985 (l'anno dell'incredibile Killer vs Killer), condannato ad appendere i guantoni al chiodo e a rimasticare brandelli di un cinema oggi irrriproponibile. Troppo audace forse per i parametri in voga di questi tempi, o semplicemente di scarso richiamo visto il suo praticare come pochi altri il genere, quello vero, quello capace di giocare con una flagranza muscolare che spazza via ogni logica, ogni premeditazione, ogni controllo. Soprattutto poi quando si è invisibili, facendo del cinema un affare sì privato (punteggiato da ossessioni fisse che rifuggono però da ogni tipo di aurea autoriale), eppure meravigliosamente aperto a letture incrociate, dato in pasto ad una fruizione per certi versi popolare che non entrerà mai in nessuna statistica, in nessun libro di storia del cinema, in nessuna classifica. Dicevamo allora dell'invisibilità, per l'appunto quella di set quasi clandestini in cui azzardare continuamente la scommessa con le proprie possibilità, ma anche quella che traspare dalla precisa scelta di non adottare alcuna forma politicamente corretta, di restare fuori dal grande circolo della denuncia istituzionalizzata (quella dei Rosi, dei Petri, dei Vancini), ma di agitare il cinema, riempiendolo di binari morti, di rincorse disperate che hanno già visto la loro fine, di momenti che configurano spiazzanti occhiate ad una società rivissuta attraverso la pelle di un condannato di morte. Il cinema più grande è quello consapevole di esser già nel dopomorte dello sguardo (non più passato, non ancora futuro, ma appunto distensio agostiniana di un presente che esige controllo e attenzione), quello di Di Leo rivive continuamente questa coscienza, anticipando di fatto le ontologie barcollanti di Kitano, riprendendo per un'ultima volta i deliri fuori tempo massimo di Melville e portando a spasso il cinema italiano in una terra di nessuno, dove il cinema è praticato, vissuto, affrontato ogni volta come fosse l'ultima.

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Non è allora un caso che il nome di Di Leo sia anzitutto legato alla stagione del cinema italiano dei primi anni Sessanta, in cui il giovane sceneggiatore (nato a San Ferdinando Di Puglia nel 1932) mette mano allo script di Per un pugno di dollari, forgiando assieme a Sergio Leone l'incipit di un universo mitico finalmente affrancato da ogni tentazione storica, per poi procedere all'invenzione di un racconto che parte dal classico (Arlecchino servitore di due padroni e così via) per sterzare improvvisamente lungo superfici che lo superano, innescando un linguaggio spezzato, convulso, violento. La scrittura di Di Leo (autore peraltro anche dello script di Per qualche dollaro in più e di Sette pistole per i Mc Gregor, oltre a qualche altro western come Navajo Joe di Corbucci) è nervosa, inquieta, in grado comunque di accorparsi perfettamente allo stile di Leone (e in seguito a quello di Tessari), e di segnare ad ogni modo anche l'esigenza di trovare un terreno adatto in cui esplodere definitivamente. Così, a metà anni Sessanta, ecco Rose rosse per il Fuhrer, un autentico delirio, sbilanciato lungo l'asse del cinema di guerra (il protagonista deve recuperare un documento in possesso dei nazisti) e portato a dei risultati formali in cui si pratica una vera e propria commistione di generi (dal cinema di guerra, a quello grottesco, passando per certi toni quasi surreali) assolutamente innovativa e infatti incompresa all'epoca. In Brucia ragazzo brucia Di Leo arriva già a smascherare il discorso cinematografico che ci si aspetterebbe dal copione (il sesso tra una donna sposata e un giovane bagnino che provoca lo scoppio del legame matrimoniale) trascinandolo attraverso una messinscena surriscaldata fatta di esitazioni, sperimentazioni condotte lungo il velo strappato e ricomposto di corpi che non a caso bruciano di passione, condotta al punto di non ritorno che è proprio rappresentato dal detour che attende la protagonista (dalla sicurezza rappresentata del tetto coniugale, all'avventura di un legame inventato nel mondo esterno) e dopo il quale è impossibile tornare indietro. Di Leo gioca apertamente con i luoghi comuni del cinema, eppure al tempo stesso sa invertirli come in Italia in quel periodo facevano davvero in pochi. E' per questo che I ragazzi del massacro (storia di un'indagine su alcuni giovani sospettati di aver violentato e ucciso la loro insegnante) rappresenta forse la prima vera esplosione del cinema di Di Leo, immerso in un'aria a tratti irrespirabile (tutte le sequenze in cui il protagonista cerca l'appoggio di uno dei giovani coinvolti), plumbea, attraversata da bagliori fatiscenti in cui il probabile aggancio iniziale ad un fatto di cronaca si trasforma in un calderone fumante di visioni acceleratissime, violente, tirate allo spasimo per poi rientrare nell'alveo della normalità inquietante che chiude l'opera. Già ci troviamo in uno dei capolavori del regista, non a caso allora tratto da un romanzo di Giorgio Scerbanenco, scrittore che il regista riprenderà tre anni dopo (ci troviamo nel 1972) in Milano Calibro 9, prima opera di una vera e propria trilogia noir composta da La mala ordina e da Il Boss. Così, all'inizio degli anni Settanta, Di Leo sceglie il terreno elettivo del suo cinema presente e futuro. Si tratta semplicemente di ripensare il western, le sue coordinate spaziali e di traslarle all'interno di un orizzonte per certi versi nuovo, quello della giungla d'asfalto, quello delle nuove metropoli cittadine in cui consumare un cinema che si affaccia improvvisamente sulle piste liminari del noir. Il resto viene da sé. Se Leone dieci anni prima cambiava definitivamente un certo modo di fare cinema, filmando la lenta e seducente fascinazione provata nei confronti di un mondo (appunto quello western) rivissuto sulla pelle del bambino che giocava ai cowboy sulle scale di Viale Glorioso, Di Leo ripensa il noir, il cinema gangster americano, stazionando però su orbite in cui il ripensamento non conduce mai alla decostruzione, ma all'esasperazione viscerale, alla personalissima messa in scena di una costellazione luminosa di riferimenti che si esauriscono presto, per dare poi forma ad un universo intimo e personale.


Se il Belmondò de Lo Spione e il Delon di Le Samurai sono spettri di sé che terminano la libera uscita nel presunto reale allestito da un pazzo scommettitore che prova ad allungare loro i minuti di vita, Di Leo ristrappa nuovamente questi corpi alla sospensione dell'essere e li proietta ancora una volta nel turbine surriscaldato dell'azione, attraverso una topografia cittadina vissuta come scheletro di un corpo distante, lontano, impenetrabile. Lo sguardo di Di Leo si innamora continuamente dell'ambiguità fisica di un eccelso Moschin (insidiato dalla polizia che lo tiene sotto controllo e dal suo vecchio boss, Lionel Stander, che lo richiama a far parte della sua squadra), frequentando il nervosismo dei suoi movimenti, la rapidità con cui uccide e la spietatezza con cui si dà all'azione. La limpidità noir del pretesto che agisce il racconto si sfrange così in una scrittura adornata da partiture fragili e irrisolte (il personaggio di Moschin, ma anche lo stesso di Luigi Pistilli, il commissario di polizia) in grado di contemplare un attaccamento carnale ai corpi messi in scena e alle loro furibonde agitazioni. Di Leo se ne frega di ogni sintassi del genere, manda subito ogni ordine grammaticale su di giri, accumulando sequenze con un ritmo impressionante, tanto che non c'è quasi più stacco/passaggio/transizione, ma semplici e sublimi scivolamenti in avanti, nella direzione di un cinema che moltiplica spazi (l'inizio di La mala ordina con con Woody Stroode e Henry Silva che partono da New York per arrivare in Italia e giustiziare il protagonista Mario Adorf, pappone di lusso) e frantuma tempi (la strepitosa sparatoria in un cinema porno ne Il Boss). Non è un caso che proprio ne La mala ordina vi sia un progressivo denudamento della struttura narrativa graffiata progressivamente da astrazioni improvvise (l'omicidio della moglie e della figlia di un grandissimo Adorf) che disegnano rotture impressionanti proprio all'interno dell'immagine, con un gusto quasi retrò per il pedinamento, le impossibili vie di fuga, gli slabbramenti progressivi di una cornice come denudata e poi ricomposta in forme diverse. E' davvero estremo il cinema di Di Leo, lontano mille miglia dalle astruserie intellettualistiche del cinema di regime che si rispetti (abbiamo già fatto i nomi), desideroso di sporcarla l'immagine, procedendo al disfacimento di uno sguardo anarchico e profondo che fa in mille pezzi ogni tipo di retorica. E' per questo forse che, guardando anche a Il Boss (un altro capolavoro inciso su corpi destinatari di un'azione che si decide sempre nel fuoricampo, come la sorte che tocca al protagonista Henry Silva) il cinema di Di Leo continua a rimanere estraneo ad ogni tempo, ogni spazio, ogni corrente. Potremmo inserirlo all'interno della stagione del poliziesco all'italiana (la formula "poliziottesco" la lasciamo a quei parrucconi che vomitano su chi fa del genere allo stato puro fregandosene di aiuti statali e altre amenità), ma anche in questo caso risulterebbe come corpo estraneo, difficilmente catalogabile. Innanzitutto per la furia nichilista che si respira in quasi tutte le sue opere (non ultima il bellissimo Diamanti sporchi di sangue, ma anche I padroni della città, col suo irresistibile sottofondo picaresco) che non ha praticamente eguali all'epoca (ci viene in mente giusto la cattiveria lancinante de La mano spietata della legge di Mario Gariazzo, morto anch'egli ultimamente, con uno dei finali più belli della storia del nostro cinema, qualcosa di Tessari come il grandioso Tony Arzenta, l'eccezionale Lenzi e il Castellari de Il Grande racket), ma anche per una coerenza espressiva assolutamente vitrea, glaciale, forse inarrivabile. Facile allora capire i perché di una censura che ha sistematicamente mutilato le sue opere (oggi come oggi è praticamente impossibile vedere quell'opera immensa che è Avere vent'anni, in cui, alla fine degli anni Settanta, Di Leo canta la morte della contestazione trascinandola in un teatro della crudeltà mutato semplicemente di segno rispetto ai suoi polizieschi), comprensibilmente atterrita rispetto ad un modo di leggere il mondo (e di fare cinema) assoluto e indipendente, smisurato e incontrollabile. Come quella strana malinconia che pervade il suo cinema e che campeggiava in quello sguardo offertoci a Stracult. Lo sguardo del sopravvissuto, nel fuoricampo del desiderio.

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